Sistemi & Impresa: Linea d’ombra


A partire dal 1994  al 2004 ho teenuto sulla rivista mensile Sistemi & Impresa la rubrica Linea d’ombra. I temi del management, dello sviluppo organizzativo, dell’Information & Communication Technology sono guardati con l’intento di portare alla luce aspetti latenti e paradossali, normalmente esclusi dalle riflessioni critiche.

Panchina lunga

di Francesco Varanini

Osserviamo una squadra di calcio. Poniamo attenzione a come in anni recenti l’organico si sia ampliato, e a come sia scomparsa la tradizionale e scontata distinzione dei giocatori in due sottogruppi tra di loro ben distinti: titolari e riserve.
Il mutamento risponde a diverse esigenze, tutte ragionevoli, ed ampiamente condivise dagli addetti ai lavori.
I ritmi di gioco si sono intensificati, è quindi sempre più difficile per un giocatore mantenere un elevato livello di prestazioni lungo l’arco di una intera partita. La frequenza degli impegni, più di uno alla settimana, causa accumulazione di fatica, ed impone quindi una rotazione tra i membri della rosa. L’attenzione alle strategie ed alle tattiche di gioco si è notevolmente elevata; si impone dunque per l’allenatore l’esigenza di mettere in campo, a seconda dell’avversario, e a seconda dell’evoluzione del singolo incontro, giocatori diversi, scelti in funzione delle loro specifiche caratteristiche tecniche ed atletiche.
Le squadre, in particolare le grandi squadre, dispongono dunque di una ventina di giocatori di valore medio-alto, tutti in grado di ambire al posto in prima squadra. E gli allenatori tendono, in modo più o meno esplicito, a sostenere la fungibilità, la aprioristica sostituibilità tra un giocatore e l’altro.
Si sostiene infatti che ciò che conta non è la qualità assoluta delle singole risorse, e che piuttosto conta la rispondenza dei singoli a standard di comportamento atteso. Si sostiene che la competizione interna è fonte di stimolo, e quindi giova al rendimento. Si sostiene che alla base di tutto sta l’’organizzazione del gioco’, rispetto alla quale la singola risorsa è mero elemento costitutivo, mero strumento.
Tutto vero. Ora però, cosa accade? Accade (le statistiche lo confermano) che più è ampia la rosa, più frequenti sono gli infortuni, con la conseguenza che l’allenatore ha di fatto a disposizione lo stesso numero di elementi che aveva a disposizione quando la rosa era più ristretta
Infortuni dovuti certo all’intensità dell’allenamento atletico e ad incidenti di gioco, ma sopratutto al più alto livello di stress, alla maggiore insicurezza, alla competitività interna che si traduce in allenamenti dove si combatte più che nelle vere partite.
Il parallelo calcistico ci aiuta a mettere a fuoco alcune semplici verità, valide per ogni sistema organizzativo.
Nell’implementare il sistema, nell’articolare la struttura, si sostengono costi che appaiono del tutto giustificati rispetto agli standard di mercato (in base al principio che ‘anche i nostri competitori si comportano così’), ma che non si traducono n realtà in miglioramenti delle quote di mercato o dei margini di profitto. Ci si comporta proprio come le squadre di calcio, che realizzano campagne acquisti rincorrendo o imitando le rivali, invece che a partire da effettive lacune nell’organico.
Spesso infatti i grandi investimenti –proprio come l’acquisto della star dal nome esotico, o proveniente dal grande club- costituiscono, più che risposte ai reali bisogni dell’organizzazione, operazioni di cosmesi tese a nascondere, ma non a risolvere, il mal funzionamento del back office e dell’organizzazione interna, che sono le vere cause delle performance poco efficaci e della ridotta competitività.
Solo quando una organizzazione è sull’orlo della crisi si interroga veramente sulla imprescindibilità dell’investimento. Si evitano allora le operazioni non indispensabili –non indispensabili come l’acquisto di molti calciatori-.
Questo è uno dei motivi per i quali le crisi hanno spesso esiti rapidi e positivi: perché, facendo di necessità virtù, si è –per restare nella metafora- rinunciato a campagne acquisti lussuose. Costretti dai fatti a mettere nel cassetto il glorioso sogno della panchina lunga, si porteranno alla luce le risorse nascoste (nella squadra di calcio i giocatori confinati nel ruolo di riserve e i giovani del vivaio).
Lo spirito di squadra ne uscirà rinforzato, crescerà in tutti la convinzione di essere utili, la sicurezza di poter lavorare senza vedere messo costantemente in discussione il proprio ruolo.

Famiglie professionali e senso di appartenenza

di Francesco Varanini

È facile dire che la professionalità è ciò che fa la differenza. Questo è particolarmente vero nel campo dell’I&CT , dove –non abbiamo bisogno di ripeterlo– il valore della risorsa è strettamente legato alle conoscenze. Conta ‘sapere come si fa’ non in assoluto, ma usando quella specifica tecnologia: quel linguaggio, quel sistema operativo, quell’ambiente.
Eppure si riflette troppo poco su cosa di fatto accade. Le professionalità delle risorse cozza contro gravi limiti. Abbiamo persone che sanno solo di Cobol, o solo di C++. Persone che conoscono solo l’ambiente Mainframe IBM, o solo l’ambiente Microsoft. Oche sono nate e cresciute con le Internet Technologies, e che del resto del mondo dei sistemi conoscono solo la modalità per interfacciare una base dati.
Un tempo questa situazione poteva essere virtuosa: la specializzazione delle risorse era efficace. La stessa logica architetturale dei sistemi, pensiamo al mondo del Mainframe, era pensata in funzione di una divisione del lavoro. Diverse figure professionali contribuivano ad un progetto di cui non conoscevano logiche ed obiettivi. La parcellizzazione e la frammentazione permetteva un controllo dei costi, e trovava la sua riconciliazione in un lavoro di Project Management. Ciò, in realtà, era possibile solo perché le disponibilità tecnologiche erano limitate. In realtà, a ben guardare, tutto si riassumeva in una unica tecnologia – che in virtù della sua unicità poteva essere imposta a clienti, utenti, committenti di progetti.
Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione opposta. Se di fronte al mondo omogeneo del Mainframe la metafora adeguata poteva apparire quella della cattedrale, di fronte al complesso e caotico quadro che abbiamo oggi di fronte la metafora più efficace appare quella del bazar.
Tutto è tecnologicamente fattibile – il cliente, l’utente, il committente, non riconoscono più al professionista dell’I&CT l’autorevolezza di un tempo.
È importante recuperare questa autorevolezza? E per quali vie l’obiettivo può essere perseguito? In punto chiave sta nel modo in cui il professionista vede il proprio ruolo. Qui entra in gioco la persona: ci sono persone che nel corso degli anni hanno saputo mantenere desto l’interesse per la propria professione, ed hanno curato la propria autoformazione. È possibile farlo: si incontrano fornitori, si leggono riviste, si partecipa a qualche workshop. Basta poco in fondo per tenersi aggiornati. Specialmente tenendo conto del fatto che oggi è meno importante di prima ‘saper fare’, mentre è sempre più importante ‘conoscere’.
Prendiamo il caso di un programmatore cresciuto scrivendo in Cobol. Non è importante saper lui scrivere C++, non è importante aver provato ad usare XML. È importante avere una chiara percezione dell’evoluzione dei linguaggi: saper ‘cosa vuol dire’ linguaggi strutturati, linguaggi a oggetti, cosa significa quel particolare modo di intendere i linguaggi cui ci hanno abituato i protocolli di Internet.
Eppure troppo spesso troviamo persone il cui orizzonte tecnologico resta fissato al mondo di origine. Nel corso degli anni, paradossalmente, la persona volge le spalle a tutto ciò che cambia, e consolida la propria immagine, cerca le proprie sicurezza diventando sempre più fedele alla vecchia cara tecnologia con la quale è cresciuto. Più il tempo passa, più questo atteggiamento di cristallizza, perché con il passare degli anni e con l’evolversi rapidissimo delle tecnologie, alla persona le ‘nuove tecnologie’ appaiono sempre più lontane, n attingibili. La persona tende magari, nel suo foro interno, a vergognarsi della sua ignoranza, e questo lo porterà ancora di più ad avvitarsi in una spirale difensiva, a non guardare più cosa st accadendo intorno.
È un atteggiamento che ha effetti rilevantissimi: spesso si tratta di persone che –anche in virtù di certi automatismi presenti anche nei Centri Elaborazione Dati– ha fatto carriera. Spesso si tratta di decisori. E le loro decisioni, consapevolmente o no, saranno condizionate da questo vizio, da questa consapevolezza intima e non ammessa di non sapere. Così accade che vengano messe in opera scelte tecnologiche arretrate. Solo perché sono le scelte sulle quali ci si sente soggettivamente sicuri. Certo tutto funziona. Ma il momento di una migrazione, del passaggio a un nuova architettura è solo rinviato.
Situazione pericolosa, che dovrebbe grandemente preoccupare il management dell’I&CT. Management che ha la sua parte di colpa, perché non si è preoccupato nel tempo dell’aggiornamento professionale delle persone. Fare innovazione puntando sui fornitori, sull’outsourcing va bene, ma i risultati saranno comunque limitati se all’interno le persone restano abbarbicate a culture tecnologiche obsolete.
Un primo passo sembra essere portare alla luce queste resistenze, ed affrontarle con le singole persone, in termini di offerta formativa. Non è vero che è tanto difficile aggiornarsi da un punto di vista tecnologico. La resistenza è psicologica, e diventa più forte via via che la persona è lasciata sola nel suo mondo di conoscenze obsolete.
Come portare alla luce queste resistenze? Come scoprire quali sono le persone più chiuse in questo atteggiamento? È abbastanza facile: chiedete alle persone se si sentono o no identificate nella famiglia professionale dell’I&CT. Potrebbe apparire una domanda ovvia. In fin dei conti, il valore contrattuale della persona, all’interno dell’organizzazione in cui lavora, sta nelle sue conoscenze distintive. E chi lavora nell’I&CT, quale che sia il suo ruolo, ha appunto la fortuna di essere portatore di conoscenze distintive. ‘Vale’ più di un qualsiasi impiegato perché, bene o male, appartiene a una famiglia professionale ‘diversa’. Eppure, provate, queste persone vi risponderanno che loro non si riconoscono affatto nella famiglia professionale I&CT. Loro considerano questo come zero. Mentre invece attribuiscono un grande valore al senso di appartenenza all’azienda. Azienda cui in fondo chiedono protezione, posto di lavoro sicuro. Peccato che, se vengono meno i contenuti professionali, all’azienda abbiano pochissimo da dare.

Accanimento manageriale

di Francesco Varanini

Chiamiamo accanimento manageriale l’illusorio tentativo di determinare gli eventi, di forgiarli, piegandoli alla personale volontà di dominio.
Pensiamo a Napoleone. Al Napoleone personaggio storico, e ancora di più al Napoleone personaggio letterario, così come è ritratto da Tolstoj in Guerra e Pace. Napoleone emana norme, stabilisce linee guida, elenca priorità, attacca. In una parola, comanda. Ma si può veramente comandare agli eventi? Un sereno ragionamento sulla complessità dei sistemi organizzativi dovrebbe far riflettere. E’ impossibile controllare tutte le variabili, è inutile pensare di possedere gli elementi per decidere ‘razionalmente’. Non disponiamo mai degli elementi per ‘prendere la decisone migliore’. Ogni nostra decisione, checché ne pensiamo, è subottimale. Se ci va bene, niente più che ‘la meno peggiore delle decisioni possibili’.
La vita aziendale funziona in base alle procedure vigenti, ma solo in apparenza. Le disposizioni operative continuano ad essere emanate, ma esistono solo sulla carta; gli ordini di servizio non riflettono i rapporti di potere effettivi; tutti fingono di lavorare nell’interesse dell’organizzazione, ma i veri obiettivi sono altri. Ciò è particolarmente evidente in situazioni di crisi. Come scrive Tolstoj: “ognuno pensava solo a se stesso e al modo di andarsene al più presto e di mettersi in salvo”.
Corto Maltese, l’avventuroso personaggio creato da Hugo Pratt, convinto di poter forzare il destino, si guarda il segno della vita sul palmo della mano, e non soddisfatto se lo prolunga con il coltello. Anche il comportamento di Corto Maltese è una forma di accanimento. La ‘linea della vita’ non può essere mutata, può solo essere compresa.
Accanirsi: ‘ostinarsi sulla preda’. Insistendo su un obiettivo, su un punto di vista. A che scopo? Il mondo cambia sotto i nostri occhi, le scelte formulate ieri sono oggi probabilmente già inadeguate. L’accanimento in fondo è una rinuncia a guardare come il quadro muta sotto i nostri occhi. L’accanimento è un atteggiamento che prescinde dai dati di realtà. Perché la ‘realtà’ –l’ambiente– è un mutevole, sfuggente, inafferrabile quadro privo di confini, del quale noi stessi facciamo parte. C’è una relazione profonda tra persona e ambiente. Tra le nostre scelte e il mondo. Una relazione che –come aveva ben capito Jung– riguarda più il nostro inconscio che i comportamenti consapevoli. Una relazione che ci appare misteriosa. Eppure, le nostre decisioni sono efficaci proprio quando accettiamo questo mistero, e seguiamo l’intuito, diamo valore alle coincidenze.
L’accanimento manageriale va nel senso opposto: intuizioni, coincidenze, ‘segnali deboli’, appaiono poca cosa rispetto al gesto d’imperio. Alla ferma decisione. Ciò non toglie che anche dove vogliamo illuderci di aver deciso in funzione di informazioni certe, scegliamo di fatto a partire da credenze, punti di vista opinabili, conoscenze discutibili, parziali letture del contesto.
Meglio allora prendere ad esempio e a modello il generale Kutusov. Anche qui, più che al personaggio storico, facciamo riferimento al personaggio tolstojano. E’ un vecchio uomo stanco, richiamato solo per disperazione a capo dell’esercito che deve combattere l’invasione napoleonica. Durante le battaglie si addormenta, o legge romanzi. A ragione, perché in quel momento il gesto di comando non aggiunge niente a quello che l’esercito potrà fare. Basa la sua azione sulla cultura, sulla conoscenza del modo di pensare dei suoi soldati. Accetta questo modo per quello che è. Mette in conto la distruzione di Mosca, accetta che la capitale sia bruciata e rasa al suolo in nome di uno scopo più alto, salvare la Russia. A differenza di Napoleone, non domina gli eventi. All’opposto, accetta di esserne dominato. Non pretende di cambiare il mondo. All’opposto, lascia che il mondo lo cambi. Non si illude di sapere, ma è disposto sempre ad apprendere. Non impone a se stesso l’obbligo di essere all’altezza di un ruolo, di un modello dato. Adatta il ruolo a se stesso, al proprio carattere.
L’ambiente ecologico –che è un sistema vivente, un sistema complesso fatto di uomini, cultura, storia, ambiente naturale (pensiamo all’inverno russo, che stronca il Napoleone glorioso vincitore)– si evolve: ciò che realisticamente è per noi possibile, ci insegna Kutuzov, è comprendere questa evoluzione, e muoversi in sintonia con essa.
Vince il manager che ‘coglie il trend’, legge gli eventi, si adegua. Kutusov, con gli occhi semichiusi, è in sintonia con il mondo più di Napoleone, che si accanisce, e sbarra gli occhi nello sforzo di sognare il futuro.
Molto ha da insegnarci il pensiero orientale. Pensiamo all’I Ching, o Il Libro dei Mutamenti, summa filosofica del pensiero cinese, nutrimento spirituale, fonte di saggezza, strumento di divinazione. Il Libro appare così misteriosa testimonianza di una situazione che ci sovradetermina, che non ci è dato di cogliere pienamente attraverso la nostra misera razionalità.
Così la nostra soggettiva capacità di percezione è ricondotta a confrontarsi con la sua inefficacia, con la sua incapacità di abbracciare l’enorme complessità dei sistemi organizzativi. Epperò con tutto questo la nostra soggettiva capacità di percezione non è negata. Il Libro ci indica la Via, ma sta a noi saper leggere le sue parole, decifrarne il messaggio.
Senza accanimento. Tenendosi lontani dai grandi gesti, soggettivamente gratificanti, ma alla fin fine inutili.

Napoleone Kutusov
Guglielmo II Francesco Giuseppe
Bettino Craxi Aldo Moro
Thomas Buddenbrook Zeno Cosini
Fabio Capello Carletto Mazzone

Figura 1. Matrice delle prevalenze: atteggiamenti napoleonici versus atteggiamenti kutuzoviani


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