Il progetto narrato


Developnet

Il progetto narrato

Tutto nacque, credo, verso la fine del 1998. Luigi Serio -che per l’Istud curava le pubblicazioni legate a un grande progetto di sviluppo rivolto alla piccola e media impresa lombarda- mi cercò tramite un comune amico. Mi conosceva per quanto scrivevo su Sviluppo & Organizzazione, nella rubrica Il principe di Condé. Apprezzava la mia consuetudine con il romanzo, con la narrazione. Mi propose quindi di narrare quel progetto. Perché -abbiamo subito concordato- la narrazione avrebbe permesso di portare alla luce tutti quegli aspetti ‘sottili’ e ‘deboli’ del progetto che non potevano essere rilevati da nessun tipo di rapporto o controllo formalizzato.
Per gli occhiuti rappresentati del Fondo Sociale Europeo, probabilmente, una lettura narrativa ed etnografica del progetto non avrebbe rivestito nessun interesse. Ma invece -pensavamo- un racconto attento agli aspetti segreti, latenti, emotivi, culturali, avrebbe certamente interessato tutti coloro che, a qualsiasi titolo, erano stati coinvolti nel progetto.
Fu per questa via che entrai in contatto con Istud, Business School e Centro di ricerca con cui ho collaborato intensamente per vari anni, e con cui sono ancora in relazione.

Frutto del mio lavoro di indagine e di lettura è questo libro: Francesco Varanini, Developnet Lombardia: Il progetto narrato, Edizioni del sole 24 ore, 2000.
Il libro racconta, quasi come un romanzo, attraverso la voce dei protagonisti, la storia di ‘DevelopNet Lombardia’ un progetto ADAPT, svoltosi tra il 1996 e il 1999. Basato sul Fondo Sociale Europeo, aveva lo scopo di “promuovere la formazione professionale per preparare i lavoratori ad affrontare le nuove sfide della professione e della società dell’informazione”.
Un progetto di ricerca–formazione–assistenza rivolto alle Piccole e Medie Imprese, condotto da Istud-Isituto di Studi Direzionali e Probest (PROduttori BEni STrumentali), divisione dell’UCIMU (Associazione dei Costruttori Italiani di Macchine Utensili, Robot e Automazione), “finalizzato ad attivare processi di cambiamento per gestire le future sfide competitive, facendo crescere la managerialità degli imprenditori e del personale delle 120 aziende lombarde coinvolte”.
Trovate di seguito la parte iniziale e finale del libro.

INCIPIT

Dove il narratore racconta del suo avvicinamento all’oggetto d’indagine, non a caso raccontando di un viaggio

Il treno parte da Milano da un binario disagiato, ai margini della grande volta di ferro e di vetro. Qualche carrozza svizzera, semivuoto. Gallarate. Poi Arona, il lago scorre nel finestrino.
Stresa pochi giorni prima di Natale. Ghiaccio per terra, bisogna fare attenzione scendendo lungo la stradina scoscesa verso il lungolago. Gli occhiali si appannano dietro la sciarpa, fa freddo, il lungolago è deserto e perfetto nella sua bellezza fuori dal tempo; nella stagione morta è più facile ricordare la villeggiatura di un tempo, tradizione mitteleuropea, lusso aristocratico, altoborghese, i grandi alberghi bianchi, maestosi, vetrate e dorature sulle facciate, passeggiavano lungo la riva signore, ombrellino e vita di vespa, gentiluomini con ricchi mustacchi, tuba o bombetta, carrozze.
Ora i grandi alberghi sono soprattutto luogo di convegni, incontri ufficiali, ma qualcosa ancora resta del passato, qualche ospite illustre, quel magnate arabo che quando viene occupa un intero piano, con il suo seguito, il suo harem e le sue guardie del corpo. Ma il mondo è cambiato, anche i camerieri sono diversi, d’inverno che senso ha starsene a Stresa, e allora capita che per pura coincidenza il docente dell’Istud abituale frequentatore dell’albergo e il cameriere che sverna viaggiando in Oriente si incontrino in qualche luogo sperduto dell’India o della Thailandia.
L’Istud ha sede in una schiera di bassi edifici grigi, dietro l’albergo.
La finestra a tutta parete inquadra un panorama immobile, uno squarcio di lago, le montagne bianche sullo sfondo. Sono qui per ascoltare un racconto. E per metterlo in pagina come fosse un romanzo.
A raccontarmi per prima la storia di questo progetto sarà una segretaria, anzi, una ex segretaria. Non un responsabile, un coordinatore, un capo: una segretaria che, per mancanza di alternative e per capacità dimostrate sul campo, ha assunto di fatto, nel corso del tempo, un ruolo chiave.
E già in questo sta il senso del progetto: aver costretto, o spinto, persone verso un profondo cambiamento. E già in questo –parallelamente, specularmente– sta il senso di questo racconto. Parlare di un serio, complesso progetto di sviluppo, di una iniziativa che vede coinvolti Comunità Europea, Ministero del Lavoro, Regione, le Associazioni Industriali, alcune delle migliori teste della consulenza strategica italiana, centinaia di professionisti, investimenti per dodici miliardi, parlare di questo progetto scegliendo dall’inizio di guardare dietro le quinte, trascurando per principio i documenti ufficiali, rinunciando sin dove sarò capace alle espressioni tecniche; raccontando cose che sono successe, non le cose che dovevano succedere.
Perché ogni storia ha una superficie liscia, levigata, Tutto ciò che accade può essere raccontato a partire dalle opinioni condivise. Tutto può essere semplificato, anestetizzato; possiamo sempre concludere, autogiustificandoci ed autopremiandoci che ‘siamo stati bravi’. Si può sempre cogliere un nesso semplice e chiaro tra un punto di partenza ed un punto di arrivo. Possiamo sempre convincerci che ‘siamo arrivati proprio dove volevamo arrivare’. E che ‘sapevamo già tutto prima’. Si può persino, senza fatica, trovare il senso della nostra storia in pagine già scritte: si trova sempre un libro già scritto che sembra raccontare la nostra storia.
Ma si può anche scegliere –ed è quello che facciamo qui– la via opposta. Guardare la nostra storia non come superficie liscia e levigata, ma come intrico di crepe e di inciampi. Non limitarci a cercare conferme, non rimuovere la fatica, le incertezze, sforzarsi di capire ‘cosa è successo davvero’.
A voler guardare, ogni progetto è l’attraversamento di un territorio impervio, ignoto. E la sua storia, raccontata, ci appare per quella che è: una storia ‘diversa da tutte le altre’. Una storia ricca di insegnamenti per noi che l’abbiamo vissuta e per tutti coloro ai quali sapremo raccontarla..
Ricca per noi, che mentre la vivevamo eravamo condizionati dal particolare punto di vista del nostro ruolo; e che –presi dall’ansia di fare– non abbiamo forse avuto modo di riflettere abbastanza.
Ricca per gli altri, speriamo uno stimolo a lavorare con maggiore attenzione, con maggiore intensità, con maggiore convinzione delle proprie capacità.

AVVICINAMENTI

Questo libro
Dove il narratore parla dei limiti del suo ruolo

La storia che racconto non è mia, né sarò io solo a narrarla. È il racconto che, per mio tramite, persone che hanno vissuto una ricca esperienza fanno a se stessi. Perché talvolta è difficile rammentare e capire ciò che si è vissuto – proprio perché i fatti sono stati visti troppo da vicino, e con tanta partecipazione.
Perciò questo libro, saggio, o forse romanzo, che –proprio come il progetto di cui racconta, proprio come ogni vero progetto di mutamento– cresce come vuole, come può e come deve, a prescindere da quanto era stato inizialmente pianificato.
Cresce per accumulazione di materiali, attorno alla voce di alcune persone. Lavoro apparentemente senza metodo. Ma che ha in realtà un metodo e parla di un metodo. Sforzarsi di capire l’altro fino a vedere le cose come l’altro, superando le barriere che ci dividono da lui, fino a identificarsi con lui, fino a diventare come lui, per un verso; e mantenendo però al contempo la consapevolezza della propria diversità, sapendo che è questa consapevolezza che ti permette di capire.
C’è un rispecchiamento, un parallelismo forte tra il lavoro che sto facendo ed il lavoro svolto da chi ha pensato e condotto il progetto.
Entrambi i lavori partono dall’idea che la conoscenza si costruisce strada facendo, a partire da una visione, ma senza usare questa visione come difesa o come regola.
Non si può raccontare una storia senza lasciare che i personaggi dicano quello che vogliono, andando anche contro l’autore, che deve rinunciare, a un certo punto, al tentativo di controllare ed organizzare il suo testo.
Allo stesso modo è condotto il progetto di cui qui parliamo: il processo, messo in moto, cresce in virtù dei contributi e dei limiti delle persone, e dell’evolversi delle situazioni.
Più semplice e rassicurante sarebbe lavorare pensando di tenere tutto sotto controllo. Ma chi crede di lavorare così, si sta semplicemente illudendo.
Non si può guidare un gruppo di persone se non accettando che sbaglino e che talvolta si perdano per strada.
Non si può parlare a un imprenditore se non accettando di entrare nel mondo che lui ha costruito per sé. Non si può intervenire in una piccola impresa se non accettando il ruolo che chi lavora nella piccola impresa è disposto a concederci. Non si può intervenire in una piccola impresa se non mettendo in secondo piano il nostro personale progetto, ed accettando che in cambio ci venga proposto un diverso progetto.

Frammenti e persone
Dove il narratore parla (ancora) dei limiti del suo ruolo

C’è un numero infinito di articoli e di libri che raccontano casi. Li raccontano dalla parte dell’esperto, che autorevolmente raccoglie e sintetizza fatti accaduti, li confronta con bibliografia,
razionalizza.
L’esperto si appropria di quello che è successo e dice ‘vale perché c’è la mia firma’.
Non c’era nessun bisogno di un altro libro così. Ma non è questo l’unico modo per rendere il senso di un’esperienza.
Si può anche raccontarla lasciando la parola a chi l’ha vissuta. Andando a guardare proprio quello che l’esperto non guarda, o non è in grado di vedere.
Allora la mediazione dell’autore sarà più lieve, il racconto più disorganico; forse solo una raccolta di alcuni punti di vista, di alcuni tra i tanti. Un resoconto anche assolutamente incompleto. Di fronte al quale chi ha vissuto l’esperienza avrà tutti i motivi di dire ‘manca questo’, ‘manca quest’altro’, ‘le cose non sono andate proprio così’.
Ben venga questa critica, significherà che il libro resta aperto, segno di un’esperienza che ovviamente, come ogni vera esperienza vissuta sulla propria pelle da persone diverse, non può mai essere del tutto raccontata, mai completamente sintetizzata, del tutto racchiusa in un libro.
Lette queste pagine, l’impressione che probabilmente resterà sarà quella di un discorso inconcluso. Frammentario.
Ma va bene così. Ogni persona che ha partecipato al progetto ha qualcosa da dire; di solito non gli viene data l’opportunità di parlare, di dire la loro. Qui, in questo testo non controllato, c’è –speriamo– almeno una traccia, un’eco di molte voci; l’idea di un brusio, di un rumore di fondo. Resterà se non altro nel lettore, speriamo, il desiderio inappagato di saperne di più, di ascoltare con più chiarezza altre voci che chi scrive non ha saputo cogliere, non ha saputo portare alla luce.
Voci di persone che hanno vissuto un’esperienza, che hanno faticato, che sono cambiate.
Queste voci, giustamente, sottolineano che si tratta di una esperienza unica, nuova, forse irripetibile.
E non importa se qualcuno, alla luce di conoscenze più alte e di più ricchi riferimenti bibliografici, potrà dire ‘c’è poco di nuovo’, ‘questo era già stato fatto altrove’.
Resta il fatto che l’esperienza è stata nuova per coloro che l’hanno vissuta. Resta il fatto che l’esperienza è andata al di là del previsto. Resta il fatto che l’esperienza è cresciuta prescindendo da modelli.
In tutti è rimasta la consapevolezza di un processo collettivo, che è di tutti e di nessuno. La costruzione del percorso è la somma imprevedibile e casuale dei diversi contributi soggettivi. Non sapevamo prima che saremmo riusciti a fare questo, abbiamo avuto paura di non riuscirci, abbiamo scoperto la strada mentre la percorrevamo. Non sappiamo neanche con chiarezza dove siamo arrivati.
Nessun maestro, nessuna grande guida, nessun padre ha tirato le fila di questo progetto. Con buona pace dell’esperto che pretende di insegnare, del consulente che non vuole che si vivano queste esperienze, perché chi ha vissuto queste esperienze difficilmente poi comprerà la sua merce.
La solitudine per questo è stata pesante; la sofferenza è stata grande. Ma per questo, anche, tutti ne sono usciti più grandi, più adulti, più convinti di sé.
È possibile tracciare una strada nuova per noi, una strada alla nostra portata, una che possiamo percorrere da soli, senza bisogno di qualcuno che ci guidi e che ci sostenga e che ci consoli.

Granelli di verità, ovvero Come narrare cioè che accade nelle organizzazioni

Dove il narratore, –rispondendo alla sollecitazione di qualche lettore particolarmente attento e ferrato– spiega più nel dettaglio il suo metodo, e lo legittima facendo riferimento a qualche fonte. Il narratore (scusandosi) si allontana così momentaneamente dal tema, per parlare di ‘questioni di teoria’ e di libri. Ciò rende questo paragrafo –a seconda dei gusti e degli interessi del lettore– del tutto inutile o assolutamente imprescindibile. Sceglierà il lettore se addentrarsi in questi meandri, o saltare a piè pari

Domandiamoci di nuovo: perché ‘narrare il progetto’?
Partiamo –apparentemente– da un po’ lontano.
La radice indoeuropea gn-/gen-/gne-/gno– parla di ‘accorgersi’, ‘apprendere con l’intelletto’, ‘sapere qualche cosa’, e quindi: ‘conoscere’.
Da qui il sanscrito janati, ‘conosce’. In greco gignoskein, ‘conoscere’, gnome, ‘giudizio’, gnorizo, ‘fare’, ‘conoscere’, gnosis, ‘conoscenza’. In latino co-gno-sco (dove co- sta per ‘con’, e -sco sa per ‘cominciare a’); gnarus, ‘che conosce’; ignarus, ‘che non conosce’; notum ‘conosciuto’; nobilis, ancora ‘noto’, ‘conosciuto’; notio, notitia, ‘conoscenza’. Nell’antico alto-tedesco dalla radice discendono solo verbi composti – –cnaen, cnahen –, ma è per questa via che arriviamo al tedesco moderno können, ‘sapere’, ‘potere’; e kennen, ‘conoscere’. Nell’antico inglese abbiamo il verbo gecnawan, poi cnawan, da cui know, ma anche l’ausiliario can, ‘sapere’, ‘potere’.
A knowledge, ‘act, state or fact of knowing’, si arriva (nel 1200) aggiungendo a cnawanleacan, che ci parla dell’idea di ‘processo’, ‘procedimento’, ‘messa in pratica’. C’è quindi, come già nel latino cognosco (‘comincio ad accorgermi’), un richiamo dell’aspetto dinamico, costruttivo: la conoscenza, infatti, non esiste a priori, può essere solo colta nel suo farsi. Ma qui il richiamo è molto più forte: c’è, pienamente sviluppato, il senso del divenire, dell’accumulazione. E c’è anche a ben guardare l’idea del ‘sapere distintivo’, destinato a restare ‘riservato’, ed anzi in qualche misura ‘segreto’. Non a caso nel 1200 knowledge stava anche per ‘confessione’: il knowledge è conoscenza che si ammette, si confessa di possedere. Non è mai conoscenza che si ‘divulga’. Divulgare: ‘rendere noto a tutti’; alla lettera: ‘spandere tra la folla’ ci appare, non a caso, un gesto del tutto contrario al quello della ‘confessione’. (L’idea del ‘riconoscimento’ e dell’ammissione’, persa da knowledge dopo il 1200, si ritrova nel 1400 in acknowledge).
Un curioso aggancio sta, tornando al latino, nella gloria, parola dall’origine incerta, ma che qualcuno fa risalire alla indoeuropea gn-/gen. La gloria sarebbe dunque, in origine, l’onorevole situazione di ‘colui che può vantarsi di sapere’. Cosicché noi potremmo dire ora: la gloria contraddistingue chi possiede il knowledge.
Per arrivare al knowhow dobbiamo lasciare passare vari secoli. Dobbiamo arrivare alla prima metà del 1800, quando si afferma la tecnologia: arti e mestieri si evolvono, perché trovano ora sostegno e fondamento in applicazioni pratiche delle scienze. Dove prima le conoscenze si trasferivano da artigiano ad apprendista, di fronte alla maggiore complessità si manifesta l’esigenza di conservare le informazioni relative al ‘come fare’. Stando all’Oxford Dictionary se ne parla per la prima volta sul New Yorker del 14 luglio 1838: “To do the duties of the office to the best of my know-how, and have a stouter man than myself to help me”.
Dunque, potrebbe sembrare, knowledge e know-how ci parlano di ‘conoscenza scientifica’, codificata, proceduralizzata, descritta da rigorosi modelli, conservata in data bases. Ma non è così. Almeno, non è solo così. Dalla stessa radice indoeuropea deriva (attraverso gnarus, ‘esperto’) anche (g)narrare.
E dunque potremmo dire: il vero ‘esperto’ è chi ha l’umiltà di limitarsi a raccontare. Il modo migliore per perpetuare un ‘sapere distintivo’, per trasmettere il knowledge, per conservare nel tempo e rendere condivisibile una esperienza è forse il racconto, la pura narrazione.
È, in profondità, una questione di metodo. Per cercare di spiegarlo, osserviamo la differenza tra autore e narratore, e ritorniamo ancora per un momento all’origine delle parole.
Auctor è in latino ‘colui che fa avanzare, il promotore, colui che fa’. Ora, se guardiamo al nostro progetto (o se generalizzando se guardiamo a come ‘funziona’ una organizzazione), potremo sì distinguere dagli altri chi dirige, indirizza, guida. Ma a ben guardare scopriremo che a svolgere questo ruolo non è (quasi) mai una sola persona. E sopratutto scopriremo che molti sono gli ‘autori’, ‘coloro che fanno’, ‘coloro che portano avanti il progetto’.
In questo libro, l’abbiamo già detto, vogliamo fare proprio questo: far ascoltare, per quanto possibile, questa pluralità di voci. Allora, questo libro non può avere un autore (gli autori sono molti); può, al massimo, avere un narratore, una persona che si dà il compito di far affiorare e raccogliere le voci – e tramite le voci, portare alla luce il contributo di ognuno al progetto.
Diciamolo un’altra volta: di fronte ad oggetti difficilmente conoscibili, rispetto ai quali si è per definizione ignari (come io che scrivo ero ignaro di tutto questo, prima che qualcuno cominciasse a raccontarmi la storia di questo progetto), il modo meno inefficace per avvicinarsi alla conoscenza è ascoltare i racconti –che stanno innanzitutto nella mente delle persone, e che affiorano innanzitutto attraverso la voce che racconta. (Ong 1982).
Pensiamo proprio al racconto, innanzitutto orale, la modalità attraverso la quale da che mondo è mondo l’uomo ha saputo ‘darsi ragione’ e ‘comunicare agli altri’ sia i concetti più complessi, sia la modalità di funzionamento delle organizzazioni.
La modalità conoscitiva tipica della ricerca antropologica non è nient’altro che questo: ascoltare un racconto orale, inquadrarlo nel suo contesto, tentare di costruirne una sintesi comprensibile e fruibile per chi vive al di fuori della ‘cupola culturale’ all’interno della quale quel sapere, quella visione del mondo si è generata. (Gagliardi 1986).
L’antropologo non può ‘somministrare questionari’, non può utilizzare metodi formalizzati, perché quei metodi verificati in un contesto culturale, buoni per portare alla luce gli aspetti significativi di una realtà organizzativa, non è detto che siano adatti a portare alla luce gli aspetti significativi di un’altra realtà organizzativa. Anzi, probabilmente i metodi validi in un contesto sono fuorvianti in un altro. (Questa non è teoria, è esperienza di antropologo).
Come l’antropologo ascolta la voce degli abitanti di un villaggio, il ricercatore o il consulente che si propone di conoscere una organizzazione deve porsi in atteggiamento di ascolto, sapendo che sta osservando un mondo attraverso gli occhi di persone che vivendo all’interno dell’organizzazione ne conoscono il funzionamento, e sanno raccontarne il funzionamento. Però, come sono ‘interne’ a quel mondo le persone che raccontano, altrettanto è interno a quel mondo il loro linguaggio. Linguaggio che l’antropologo potrà capire solo in parte. Sia che goda del contributo di un ‘traduttore’ (una persona che si sforza di spiegare un mondo a chi non lo vive), sia che traduca da solo (sia che compia questo sforzo di lettura da solo) saprà portare fuori solo una immagine distorta, parziale. Nel suo ‘racconto’ il ‘contenuto originario’ sarà solo parzialmente rispettato.
Valga l’esempio di come giunge a noi condizionato da innumerevoli passaggi un testo scritto in tempi lontani: I Ching, o la Bibbia. D’altronde, l’illusione del filologo di ripristinare il testo originale (l’archetipo) è vana. È un esercizio positivistico che lascia il tempo che trova: non tanto nel senso che il testo originale è ormai perso, e quindi le sue ricostruzioni non possono essere certe, ma in un senso più radicale: il testo originale non esiste: la produzione dei contenuti è un processo, il momento in cui una porzione di contenuti si è consolidata in un testo (orale, codificato dalla rima) o scritto, è solo un momento nella storia della costruzione del sapere, del knowledge.
Ne risulta che ogni pretesa ‘ricostruzione scientifica’ del sapere di una organizzazione non è che un parziale ed opinabile tentativo di leggere questo sapere. Ne risulta anche che –probabilmente– offrirà la ricostruzione, o l’immagine, migliore –nel senso di meno imprecisa, più efficace– non chi si preoccupa di ri-usare metodi standard, già usati altrove, ma chi si abbandona ‘empaticamente’ all’oggetto (‘empatia’: passione, affetto), cercando di raccontarlo senza trascurare –anzi dando il massimo valore– alle proprie emozioni, ai propri dubbi; senza mai dimenticare che ciò che sta restituendo è una immagine parziale e soggettiva. Ed al contempo senza mai dimenticare che sta svolgendo una operazione che è –anche– artistica ed estetica (Gagliardi 1996).
Dunque non praxis, ‘azione’ scientificamente orientata a conoscere, ma poiesis: ‘fare’, ‘produzione’ (nel senso di ‘io produco la mia –parziale– conoscenza’) e al contempo ‘poesia’: capacità di raccontare commuovendo e suscitando emozioni.
Dovendo ognuno confrontarsi con la propria capacità di lasciarsi emozionare dall’oggetto di indagine –dovendo ognuno scoprire e costruire, o meglio: lasciar emergere– la propria capacità empatica, ci appaiono inutili i tentativi di trasformare in metodo l’‘etnografia organizzativa’ (Piccardo e Benozzo 1996).
E appaiono insoddisfacenti anche i ben più stimolanti e profondi tentativi di ‘narrare le organizzazioni’ (Czarniawska 1997). Perché l’acuta autrice osa troppo poco: si confronta con il critico letterario, forse anche con il filologo, e cerca nel lavoro del critico e del filologo la radice della ‘narrazione’. Come dire: solo il critico ed il filologo –esperti legittimati– sono in grado di ‘leggere il testo’. Si legittima così oltre il necessario il ruolo del ‘mediatore di conoscenza’. Spesso l’autore con la A maiuscola non aggiunge nulla a ciò che sa raccontare un narratore orale; spesso il critico non aggiunge nulla a ciò che sa dire da solo chi scrive un romanzo. Il critico, il recensore, l’interprete legittimato, si mettono di mezzo, e ci obbligano a leggere quello che vogliono loro, ad ascoltare la loro voce, non quella dell’originario narratore. (Varanini 1986, Steiner 1989)
Se questo è vero, perde valore il parallelo proposto da Czarniawska. Czarniawska ci dice: solo il ricercatore che sa usare gli strumenti del critico letterario e del filologo può guardare con la speranza di comprenderli ai fatti organizzativi. È vero, ma è troppo poco. Il vero modello al quale il ricercatore dovrebbe avvicinarsi non è il critico –‘conoscitore scientifico’–, ma il puro narratore (romanziere o poeta, ‘conoscitore empatico’).
Czarniawska ricorda l’inevitabilità della mediazione dell’osservatore: l’oggetto può essere conosciuto solo attraverso la mediazione dell’osservatore ( è un fondamentale punto epistemologico sottolineato anche in altri contesti della ricerca scientifica, vedi per esempio Maturana e Varela 1985). Ma va oltre: considera la mediazione dell’osservatore necessaria e positiva. Accetta come arricchente la mediazione del critico, dell’esperto, dell’interprete legittimato. Di chi gode di un certo status accademico-professionale.
Il poeta o il romanziere sono invece, per definizione, dilettanti della conoscenza. Non negano mai di aggiungere o togliere qualcosa all’oggetto. (Questo è vero anche per la narrativa che si sforzava di essere ‘naturalista’ e ‘positivista’, alla Zola). Non negano mai di lasciarsi trascinare dalle emozioni. Proprio per questo, nessun sociologo e nessuno storico saranno mai in grado di parlarci dell’industria editoriale del secolo scorso meglio di Balzac; nessun economista e nessun sociologo sapranno parlarci dell’industria ‘sommersa’ dell’Italia contemporanea meglio di Aldo Busi
(Zola, 1885, Balzac 1837-1843, Busi 1985, Olivetti Manoukian 1990, Czarniawska–Joerges e Guillet de Monthoux 1994).
Si può descrivere efficacemente una organizzazione per mezzo di poesie (e qui il narratore chiede venia perché cita di nuovo se stesso: Varanini 1994).
Si può narrare un progetto come un romanzo inconcluso: voci che si sommano, che si sovrappongono parzialmente: il lettore senza fatica potrà mettere insieme nella sua mente questi spezzoni di discorso. Più che una ‘guida alla lettura’, più che un aiuto a trarre la morale dal racconto (la morale ogni lettore è capacissimo di trovarsela da solo), credo che al lettore interessi la possibilità di guardare al nostro tema, alla storia di questo progetto, da diversi punti di vista. Più voci si ascoltano, più aumenta la probabilità di aver fatto affiorare almeno una parte di quella che si chiama ‘conoscenza latente’. Conoscenza che appunto non affiora se non si ascoltano le voci di coloro che la possiedono. (Czarniawska torna sul tema in modo più convincente quando smette di confrontarsi con i critici letterari e si confronta con questioni metodologiche: come concretamente usare un ‘approccio narrativo’ allo studio delle organizzazioni: Czarniawska-Joerges e Guillet de Monthoux 1994).

Bibliografia

BALZAC, Honoré de (1837-1843) Les illusions perdues, Paris; trad. it. Le illusioni perdute; trad. it. Milano, Garzanti, 1983, 2 voll.

BUSI, Aldo, (1985) Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Milano, Mondadori, 1985

CZARNIAWSKA–JOERGES, Barbara e GUILLET DE MONTHOUX, Pierre (a cura di) (1994) Good Novels, Better Management: Reading Realities in Fiction, UK, Harwood Academic.

CZARNIAWSKA, Barbara, (1997) Narrating the Organization, Dramas of Institutional Identity, Chicago, The University of Chicago Press.

CZARNIAWSKA, Barbara (1998), A Narrative Approach to Organization Studies, London, Sage Publications.

GAGLIARDI, Pasquale, (1996), “Exploring the Aesthetic Side of Organizational Life”, in Handbook of Organization Studies, Clegg S., Hardy C. e Nord W (a cura di), London, Sage Publications.

GAGLIARDI, Pasquale, (1986) Teoria dell’organizzazione e analisi culturale, in Gagliardi. P (a cura di) Le imprese come culture, Torino, Isedi.

MATURANA, Humberto e VARELA, Francisco, (1980) Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Dordrecht, Holland, D. Reidel Publishing Company; trad. it. Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Venezia, Marsilio, 1985.

OLIVETTI MANOUKIAN, Franca (1990), “L’organizzazione nella rappresentazione dei letterati”, in Kaneklin, Cesare e Olivetti Manoukian, Franca, Conoscere l’organizzazione. Formazione e ricerca psicosociologica, Roma, La Nuova Italia Scientifica.

ONG, Walter J., (1982) Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London, Methuen; trad. it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986.

PICCARDO, Claudia e BENOZZO, Angelo (1996) Etnografia organizzativa, Milano, Cortina,

STEINER, Georges, (1989) Real Presences, Chicago, The University of Chicago Press; trad. it. Vere Presenze, Milano, Garzanti, 1992.

VARANINI, Francesco (1994) T’adoriam budget divino. Critica della ragione aziendale, Milano, Sperling & Kupfer.

VARANINI, Francesco, (1986) “L’interprete, ovvero: il lettore legittimato”, Italianistica, XV, 1, gennaio-aprile.

ZOLA, Émile, (1885) Germinal, Paris; trad. it. Germinale, Milano, Frassinelli, 1996.

(…)

EXPLICIT

Dove il narratore prende congedo dal lettore, non a caso raccontando di un viaggio non concluso. Prende congedo anche a nome dei protagonisti, ai quali infine lascia la parola

Questo racconto termina un venerdì di novembre. Inverno incipiente, l’ora del tramonto a passo d’uomo, da un’ora in coda sulla tangenziale tra Cascina Gobba e Lambrate.
I consulenti viaggiano molto, e possono dividersi in due categorie. I viaggiatori in aereo, spesso anche abitatori frequenti di hotel. Si spostano tra Milano e Roma, altre grandi città, magari all’estero. Sedi centrali di grandi imprese, incontri ad alto livello, aule affollate di quadri e dirigenti.
E poi ci sono i forzati dell’automobile, come i professional della nostra storia. Loro devono andare in Val Camonica, in Val Trompia, in Val Seriana, nella bassa padana, in Brianza, nel Varesotto, in tutti quei luoghi lontani dai centri ufficiali del potere dove la piccola industria, legata alle proprie radici, insedia gli stabilimenti.
Torniamo appunto da un luogo così, dall’incontro con un imprenditore. Parlare con un alto dirigente, con un manager nel suo ufficio protetto da segretarie è un altro gioco, un altro linguaggio fatto di circospezione e di tatto. Con l’imprenditore invece il gioco sta nel guardarsi negli occhi e nel capire cosa è immediatamente utile, dietro ogni parola c’è il riferimento tangibile, imprescindibile a quanto mi costa, a quanto mi rende, ai pezzi prodotti o da produrre.
Siamo stati a parlare con un imprenditore, l’imprenditore per capirlo lo si deve andare a trovare dove lavora; parlare con lui conta, ma conta altrettanto e di più fare con lui il giro in produzione, nel magazzino, cogliere il suo sguardo mentre dice qualche parola ai suoi operai, si aggira tra le macchine, prende in mano con familiarità prodotti, semilavorati, ricorda di quando suo padre fece la tal cosa, si lamenta del futuro incerto. Non seduto ad una scrivania, ma in movimento, percorre il mondo che ha costruito e che ogni giorno deve costruire di nuovo; è allora, è lì che è veramente se stesso.
L’imprenditore, il piccolo imprenditore per capirlo lo si deve andare a trovare dove produce, bisogna capire il suo attaccamento a quello che ha costruito, bisogna ascoltare e capire e trovare il modo di essere utili al suo progetto, solo allora possiamo dire di essere stati utili a qualcosa, e anche di avere imparato qualcosa, perché c’è sempre da imparare. Ma com’è difficile far capire questo al consulente viaggiatore in aereo, chiuso nelle sue certezze e nei suoi perfetti modelli di intervento, modelli così inutili in concreto; il consulente forzato dell’automobile si racconta e si confessa, mentre fa buio, una delle difficoltà più grandi è proprio trovare altre persone come noi, qualcuno con cui condividere progetti come questo, come è diventato per fortuna e per caso e anche per nostra capacità questo Adapt, progetto senza fondamento e senza centro e per questo efficace. Spazio d’azione, di innovazione, riempito di senso dagli imprenditori stessi, noi ci abbiamo messo la nostra buona volontà, il nostro accanimento nel superare le resistenze, le nostre conoscenze, certo, ma prima di queste la nostra volontà di apprendere. Difficile mantenere questo atteggiamento, per farlo servono conferme, per questo speriamo sarà utile a qualcuno questo racconto, che è anche il racconto di una ‘consulenza’ e di una ‘formazione’ che interrogano se stesse, un racconto che dice a chi ha vissuto questa esperienza: ‘dimenticare e ricominciare da zero sarebbe un delitto’, un racconto che, speriamo, dica agli imprenditori: ‘qui c’è qualche traccia della nostra storia – e se qualcuno da fuori ha saputo raccontarla, pensa tu che libro metteremmo su se ci raccontassimo noi da soli, ne diremmo delle belle.
C’è tanto tempo per vagare con il pensiero viaggiando così in automobile, in colonna con l’auricolare del cellulare a portata di mano, a noi consulenti servirebbe avere più stimoli, visitare più aziende, avere, creare più occasioni di incontro, sentirsi meno soli, non vogliamo più autopunirci per essere diversi, paghiamo già un prezzo tanto alto che qualcuno nemmeno se l’immagina, attività che ti occupa tutto il tempo e ti riempie sempre i pensieri, difficile farlo capire alle mogli, proprio quasi come accade ai piccoli imprenditori e forse per questo ci sentiamo vicini a loro, magari questo racconto servisse a questo scopo, a restituire con chiarezza ciò che noi stessi vediamo in modo confuso, i tratti tipici ed i modi caratteristici di fare consulenza così, da forzati dell’automobile, Val Camonica, in Val Trompia, Val Seriana, nella bassa padana, in Brianza, nel Varesotto e non sedi centrali, uffici protetti da segretarie, Milano Torino Roma.
E così, visto che siamo ancora in coda sulla tangenziale tra Cascina Gobba e Lambrate, stavolta è peggio del solito, ormai è buio da un pezzo e si viaggia nella luce dei fari, ognuno nella sua scatola, così si spiega la nostra ricerca di piccole sicurezze, segni di identità simili a quelle dei piccoli imprenditori, dato che devo viaggiare tanto, mi dico, almeno mi prendo una macchina come si deve, un’auto importante. Almeno quello, che di guadagnare tanto non se ne parla, con quello che ti portano via le tasse, è una cosa che mi fa andar via di testa pensare a quello che ti succhiano, non c’è rispetto, verrebbe voglia di mollare tutto.
Poi penso che non molla il piccolo imprenditore, non molliamo noi, un bel pezzo d’Italia va avanti così. Inventandosi modi che nessuno penserebbe. Inventandosi modi che nessun progetto scritto sulla carta può prevedere. Inventandosi modi di usare i progetti e far funzionare i progetti.
Non è poco. Qualcosa siamo riusciti a fare. E non importa se nei momenti finali, che potevano essere di esaltazione, non abbiamo neanche avuto il tempo di gioire.