L’innovazione latente


L'innovazione latente

Copertina de “L’innovazione latente”

Ho diretto il gruppo di lavoro che ha condotto tra il 1999 e il 2000, per conto dell’Associazione Industriale Bresciana, Sezione Piccole Industrie, una ampia ricerca sul tema dell’innovazione. I principali risultati sono raccolti in:
Mauro De Martini, Maurizio Lambri, Massimo Redolfi, Gianfranco Tosini, Francesco Varanini, L’innovazione latente. Un campione di piccole e medie imprese bresciane si racconta, Il Sole 24 ore, 2001.

E’ una ricerca etnografica, ma anche e sopratutto una narrazione collettiva, raccolta dalla viva voce di quegli straordinari narratori che sono gli imprenditori.
Dal mio personale punto di vista, uno dei lavori più interessanti che ho svolto. anche uno dei più misconosciuti. Forse, noto adesso dopo anni senza falsa modestia, un lavoro in anticipo sui tempi. Miei successivi scritti – Il ricercatore debole, Contro il manager, nascono in buona misura da qui.

Trovate di seguito l’Introduzione ed il Primo Capitolo del libro.

COME LEGGERE QUESTO LIBRO

Questo libro, forse come ogni libro, si rivolge a lettori diversi. E non pretende di essere letto dall’inizio alla fine.
Si rivolge innanzitutto agli imprenditori bresciani che hanno scelto di partecipare a un progetto testo a portare alla luce,e vedere riconosciuta, la loro ‘capacità innovativa’.
Si rivolge poi a stakeholder ed esperti: figure di riferimento di enti ed organizzazioni pubbliche e operatori del mondo finanziario, uomini politici, sindacalisti, giornalisti, docenti universitari, ricercatori, consulenti: tutti coloro che sono interessati a conoscere la piccola e media impresa
Si rivolge infine anche a qualsiasi lettore curioso, perché almeno una parte di questo libro può essere letta come un romanzo.
Diciamo subito ai primi destinatari, gli imprenditori bresciani, di non inquietarsi se il libro contiene parti che giudicano superflue o noiosissime. Perché queste parti sono necessarie per parlare agli altri destinatari, e per essere ‘presi sul serio’ da loro.
Ciò che potrà immediatamente interessare agli imprenditori sarà la parte narrativa. Non perché dica qualcosa di nuovo, anzi: dice cose che gli imprenditori sanno benissimo. Ma le dice una volta tanto con le loro parole, dal loro punto di vista. Agli imprenditori interesserà ancora di più, speriamo, il lavoro sugli indicatori della ‘capacità innovativa’: non crediamo che si tratti di un lavoro concluso. Speriamo solo che sia un buon inizio, una base per costruire un sistema di rilevazione -riconosciuto in sede politica e finanziaria- dell’innovazione che i piccoli e medi imprenditori realizzano ogni giorno, senza che nessuno lo veda.
Il capitolo Ogni piccola industria è un mondo si rivolge in particolare a stakeholder ed esperti: parla dell’impianto e degli obiettivi della ricerca, pone al centro dell’attenzione la figura del piccolo e medio imprenditore, costituisce lo sfondo necessario per cogliere pienamente il valore dei contenuti portati alla luce nella parte narrativa. Il capitolo Scelte di metodo esplicita l’approccio e gli strumenti: la dignità di una ricerca sta anche nella serietà del suo impianto.
La parte narrativa organizza in un discorso collettivo le voci degli imprenditori che hanno partecipato al progetto. Non c’è modo più efficace del racconto per ‘dire le cose come stanno’. Chiaro che poi ogni singolo argomento può e deve essere approfondito. Ma è significativo come il discorso si organizzi con precisione attorno a questioni da tutti considerate rilevanti e ad esperienze condivise.
Il capitolo Per una misura della capacità innovativa contiene, sia pure ad un primo stadio di elaborazione, una concreta proposta di come può essere misurato quel fondamentale e misconosciuto ‘asset intangibile’ che è la capacità innovativa delle piccole e medie imprese.


COME È STATO COSTRUITO QUESTO LIBRO

La ricerca e frutto collettivo del lavoro del Gruppo di Ricerca formato da Francesco Varanini, Maurizio Lambri, Massimo Redolfi, Mauro De Martini, Gianfranco Tosini. Francesco Varanini è responsabile dell’impianto metodologico e della direzione della ricerca. Lambri, Redolfi e De Martini hanno apportato la forte relazione con il mondo della piccola e media impresa bresciana, maturata nel corso di precedenti esperienze di ricerca ed intervento. Tosini ha lavorato sui materiali raccolti con l’approccio del ricercatore quantitativo. Senza il buon lavoro degli intervistatori ed il coordinamento di Laura Ferrando la ricerca non sarebbe stata possibile.

Francesco Varanini ha scritto i capitoli Ogni piccola industria è un mondo e Scelte di metodo, e ha curato l’organizzazione finale dei materiali sotto forma narrativa.
Maurizio Lambri e Mauro De Martini hanno lavorato in particolare ad una prima organizzazione dei materiali, tesa a far emergere le chiavi di lettura.

Massimo Redolfi è autore del capitolo Per una misura della capacità innovativa.
Gianfranco Tosini è autore del capitolo Le relazioni tra campione ed universo.


CAPITOLO 1
OGNI PICCOLA IMPRESA E’ UN MONDO

Perché questa è una ricerca diversa
I piccoli imprenditori sono oggetto delle mire, e oggetto di desiderio di istituzioni, giornalisti, politici, centri di ricerca, fornitori di software, consulenti, business school.
I piccoli imprenditori producono ricchezza ‘a modo loro’, e questo urta e solleva reazioni.
Da ogni lato si tenta di appropriarsi della ricchezza prodotta dalla piccola impresa, ricchezza in ogni senso, anche ricchezza culturale, capacità di produrre reddito e di innovare e di generare un proprio modello di sviluppo. L’appropriazione passa attraverso diverse vie: attraverso la pressione fiscale, attraverso l’imposizione di modelli esterni, ma anche attraverso il dire ‘in realtà questo non l’ha pensato il piccolo imprenditore, ma l’abbiamo pensato noi’.
Alla classe politica dà fastidio un oggetto sociale sfuggente, capace di muoversi al di fuori di logiche di cooptazione e di spartizione. Agli intellettuali dà fastidio la pretesa ‘ignoranza’ del piccolo imprenditore (che è invece una diversa forma di conoscenza). Agli specialisti dei modelli di sviluppo dà fastidio un comparto economico che si muove a partire da un proprio modello e che smentisce previsioni e scenari. Ai docenti universitari ed ai consulenti dispiace un mondo impermeabile alle loro ricerche e disattento ai loro augusti consigli.
Al contempo tutti hanno appetiti: la piccola impresa è un mercato ricco di spazi non occupati. Così tutti vogliono vendere alla piccola impresa: servizi, consulenza, ricerche, hardware e software.
La relazione con la piccola impresa si fonda non di rado sul tentativo di imporle uno scambio non eguale: si considera il piccolo imprenditore incapace di ragionare sul proprio modello di sviluppo, e per questa via si tenta di imporle un modello di sviluppo costruito dall’esterno. Come a dire: ‘tu non hai neanche coscienza di chi sei, di quali sono i tuoi bisogni’.
Questo fa sì che le ricerche riguardanti la piccola impresa siano, in genere, autoreferenziali. Partono da una idea che della piccola impresa si ha, e la confermano. Parametri di misura pre-definiti vengono usati per confermare ipotesi pre-esistenti. L’immagine ‘pubblica’ delle piccole imprese è quindi viziata da luoghi comuni.
Il luogo di comune più diffuso vuole la piccola impresa ‘non innovativa’. Ma la piccola impresa appare non innovativa solo perché si misura l’atteggiamento innovativo con parametri, indici, strumenti, incapaci di porre in luce i comportamenti dei piccoli imprenditori.
La nostra ricerca perciò azzera qualsiasi riferimento a ricerche precedenti, e si affaccia sul suo oggetto d’indagine rinunciando a qualsiasi pre-giudizio. Il metodo -etnografico- si fonda sul considerare il campo sconosciuto. Ci si avvicina al mondo attraverso i suoi abitatori, chiedendo a loro di descriverlo.
Dal racconto degli imprenditori -guidato da una traccia di intervista non strutturata, raccolto tramite interviste registrate- emerge una descrizione del mondo.
E di conseguenza emergono anche strumenti di misura. Strumenti in grado di rilevare gli atteggiamenti innovativi ‘che ci sono’, non gli atteggiamenti che a ricercatori ed esperti piacerebbe che ci fossero.
La piccola impresa esce così dal ruolo riduttivo di ‘oggetto di indagine’, e rovescia orgogliosamente le carte in tavola: ‘siamo così, dovete prenderne atto’.

Identità e mondo creato
Ogni piccola industria è un mondo, un mondo costruito a immagine e somiglianza dell’imprenditore. L’imprenditore è il creatore che si identifica con la sua creazione. Non è certo solo ‘lavoro’ il suo, ‘pane guadagnato con il sudore della fronte’. È anche ozio, gioco, piacere, occupazione creativa e costruttiva del tempo di vita visto nel suo insieme. È realizzazione di sé, misurata non solo in denaro.
Tempo ben speso non solo per sé, ma anche per gli altri. È così che la piccola impresa, la creazione, rispecchia ed oggettiva le conoscenze, il carattere, gli atteggiamenti del creatore. L’imprenditore si aggira nel suo mondo, lo osserva, lo crea e ricrea giorno dopo giorno. L’imprenditore, in quanto soggetto, lega all’impresa non solo il tempo di lavoro, ma tutto il tempo; non solo la realizzazione professionale, ma la propria affermazione, in senso complessivo.
L’imprenditore sceglie di fare partecipare alla creazione del suo mondo persone in qualche modo simili a lui. Così, o le conoscenze, il carattere, gli atteggiamenti delle persone che lavorano nell’impresa sono coerenti con conoscenze, carattere ed atteggiamenti dell’imprenditore, o le persone sono espulse. E questo vale tanto per familiari -fratelli, figli, mogli-, tanto per i collaboratori. La divisione dei compiti, dei ruoli, del lavoro, è possibile, ma solo se l’identificazione è sentita, e realizzata quotidianamente nei fatti.
La grande impresa è caratterizzata da un modello teso a rendere efficace la coesione di culture diverse e di atteggiamenti valoriali anche distanti tra loro. La grande impresa accetta anche persone che si identificano esclusivamente con la famiglia professionale – la piccola impresa rifiuta le persone che non si identificano innanzitutto con la ‘famiglia organizzativa’, e cioè persone che non si trovano a proprio agio in un ‘senso del noi’ da tutti compreso e condiviso.
Per ‘tenere insieme’ le diverse visioni del mondo di cui sono portatrici le diverse famiglie professionali, la grande impresa è costretta ad accettare i costi di un pesante apparato burocratico. La piccola impresa, al contrario, considera la burocratizzazione un pericolo grave ed un segno di crisi: se la burocrazia esistesse, se la coesione organizzativa fosse frutto di regole esterne a ciò che è considerato ‘vero’ dalle persone, se questo accadesse significherebbe che l’impresa è venuta meno al suo fondamento, e cioè la capacità di reggersi attorno ad idee ed atteggiamenti condivisi.
La grande impresa -gestita da persone scarsamente identificate- è disposta, sull’altare della crescita, a mettere a repentaglio e, alla fine, a rinunciare alla propria identità. All’opposto la piccola impresa, dove l’imprenditore che si identifica totalmente con la propria creazione, è una cultura, un mondo costruito in base a regole e scopi che sono strettamente legati alla figura del fondatore, o del rifondatore. La piccola impresa vive e prospera perché è caratterizzata da una forte omogeneità. La stessa crescita della singola impresa è subordinata alla salvaguardia dell’identità e dell’idea fondante. La piccola impresa cresce ed evolve nella misura in cui crescita ed evoluzione non allontanano da ciò che l’imprenditore soggettivamente vive come necessario e giusto.
Già questa riflessione ci porta a mettere in discussione alcuni luoghi comuni.
Non è vero che la piccola impresa non sappia gestire i passaggi generazionali. È che se la piccola impresa è specchio dell’imprenditore, se è stata da lui costruita a propria immagine e somiglianza, non è scontato che fratelli, consorti o figli si rispecchiano in quel mondo; non è detto che quel mondo possa efficacemente evolversi per dare spazio alla loro soggettività.
E non è vero che la piccola impresa non voglia crescere. La piccola impresa vuole crescere, ma non è disposta a farlo quando il ‘crescere’ significa rinunciare ad essere se stessi, significa subire un modello di sviluppo in contraddizione con la propria identità.
Se l’imprenditore ha scelto di essere tale per costruire il proprio mondo, un mondo che è immagine di lui stesso, dei suoi desideri, dei suoi sogni, delle sue conoscenze, non potrà e non vorrà accettare cambiamenti che lo obbligheranno a ‘non essere se stesso’. Se, inoltre, l’impresa è vissuta come cultura, l’imprenditore metterà giustamente in discussione i parametri in base ai quali la ‘crescita’ è misurata. Solo ogni persona, ogni ‘sistema vivente’ conosce il proprio ‘modello di sviluppo’. Crescere, è una cosa diversa da soggetto a soggetto. Crescere è evolversi a partire dal proprio ‘codice genetico’, crescere è svilupparsi a partire dal proprio progetto e dalla propria idea, crescere è cercare la propria ‘forma perfetta’: questo modello di crescita è cercato e perseguito da ogni piccolo imprenditore. Ma se ‘crescere’ significa adeguarsi a modelli imposti dall’esterno, modelli frutto di politiche statali o anche modelli discesi da norme stabilite a livello internazionale, modelli che annacquano l’identità culturale dell’impresa, la allontanano dalla sua idea fondante; se crescere significa sminuire il legame vitale tra il progetto soggettivo dell’imprenditore e la sua oggettivazione in organizzazione produttiva; se crescere significa perdere il controllo e la visione complessiva – se crescere significa tutto questo, la piccola impresa non potrà e non saprà crescere. Perché all’imprenditore questa crescita non interessa. Perché per l’imprenditore questa crescita non è soggettivamente accettabile. A tutto si può rinunciare, ma non alla propria identità.
Imponendo, o semplicemente proponendo modelli alla piccola impresa, si dimentica che la piccola impresa, così come è, è irrinunciabile parte dell’identità soggettiva dell’imprenditore.
Invece di criticare gratuitamente la piccola impresa per la sua incapacità di ‘crescere’, si dovrebbe accettare l’idea che la piccola impresa non si vive come piccola, ma come impresa che non rinuncia ad essere se stessa, e che spontaneamente cerca le proprie dimensioni ideali.
D’altronde, a nessuno sfugge il fatto che accettare fino in fondo la capacità della ‘piccola impresa’ (già a questo punto del discorso l’idea del ‘piccolo’ acquista un significato nuovo, e nel nominarla si rendono necessarie le virgolette), a nessuno sfugge il fatto che accettare fino in fondo la capacità centrale della ‘piccola impresa’ -la capacità di costruire il mondo, di creare a partire da zero- significherebbe accettare un modello di sviluppo fondato sul decentramento, sull’abbassamento dei livelli di controllo, sul sostegno allo sviluppo spontaneo.
Chi è privo delle capacità che contraddistinguono il vero imprenditore, chi non sa costruire mondi, ed ha quindi bisogno, per operare, di contesti garantiti e di regole tese a limitare la libertà soggettiva, non potrà che combattere la ‘piccola impresa’.
Il modo più efficace, e più subdolo, per combattere la ‘piccola impresa’ consiste nel colpevolizzarla, nel minare la sicurezza dell’imprenditore in se stesso, nel mettere in discussione l’efficacia del modello che ogni ‘piccola impresa’, da sola, sa darsi.
Dire che la piccola impresa non innova è affermazione lontanissima dal vero. Eppure è argomentazione normalmente usata per ‘mettere all’angolo’ la ‘piccola impresa’.
Attraverso la breccia dell’insicurezza passa l’imposizione di modelli esterni. Modelli che sono quasi sempre peggiori di quelli che l’imprenditore avrebbe saputo costruirsi da solo. E che sono dei cavalli di Troia, perché rispondono in realtà alle esigenze di soggetti sociali diversi: la grande impresa burocratizzata, gli organismi di rappresentanza, classi politiche.
Il piccolo imprenditore, occupato a costruire il mondo, ha poco tempo da perdere. Questa ricerca, pensata dalla parte del piccolo imprenditore, ha lo scopo di portare sul terreno avversario -il terreno degli esperti, dei decisori, degli opinion leader, degli stakeholdes e degli shareholders- argomentazioni costruite da punto di vista del piccolo imprenditore.
Con le semplici e concrete parole del piccolo imprenditore che racconta cosa quotidianamente fa si può, speriamo, smascherare il gioco, e dimostrare che nonostante tutto quello che viene detto e scritto il piccolo imprenditore sa fare benissimo il suo mestiere, e non ha bisogno di sostegni, modelli esterni imposti, consulenze obbligatorie. Quello che gli serve sa benissimo dove andarselo a cercare. Quello che gli è necessario sono spazi adeguati di movimento.

Il regime dei vincoli e la sua virtù
La piccola impresa si fonda su legami interni: legami familiari, legami forti con i dipendenti, che sono innanzitutto collaboratori, persone partecipi di un sapere condiviso. L’impresa funziona perché questi legami: questi ‘vincoli che legano’ esistono, e sono vissuti giusti, necessari ed efficaci.
Non c’è bisogno, ad esempio, di un contratto di lavoro imposto dall’esterno, perché ogni lavoratore -se è un lavoratore identificato con la cultura di quella impresa- sa -ha motivo di verificarlo giorno dopo giorno- che l’orario di lavoro è coerente con l’attività produttiva ed il mercato di riferimento. Allo stesso modo, il regime di incentivi legati ai risultati è da intendersi come compartecipazione al ruolo dell’imprenditore. Ogni lavoratore, in fondo, è imprenditore di se stesso. E contratta e ridefinisce giorno dopo giorno la sua relazione con l’organizzazione. Niente gli impedisce di andarsene e di fondare la propria impresa.
Gli oneri organizzativi -quello che ‘si deve fare’ perché l’impresa prosperi- sono a tutti noti; tutti sanno quello che c’è da fare perché il sistema funzioni. Il reciproco controllo sociale funziona. Il ciclo produttivo ed il mercato di riferimento sono noti a tutti. La conoscenza è diffusa; e l’imprenditore sa che l’impresa prospera se si è capaci di utilizzare e rendere condivisi i saperi e le idee di ognuno.
La piccola impresa non rifiuta la codifica delle conoscenze in regole organizzative. Le procedure sono fondamentali per non dover reinventare tutto ogni volta, di nuovo. Gli aspetti virtuosi della certificazione sono evidenti ad ogni imprenditore. Ogni imprenditore lavora per codificare il suo modo di produrre ed in genere i comportamenti organizzativi. Valga l’esempio della certificazione. Che è una pratica spontaneamente, normalmente perseguita dall’imprenditore. Se però la certificazione porta con sé momenti di controllo e standard che limitano l’organizzazione nel perseguimento dei suoi scopi, allora la certificazione verrà rifiutata, o considerata alla stregua di un peso da sopportare, un ‘vincolo esterno’ che deve essere subìto, e che non porta di per sé nessun vantaggio.
Di per sé, perché la certificazione, così come ogni altro ‘vincolo esterno’, per quanto assurdo ed ingiusto sia nel merito, appare, di fronte alla piccola impresa intesa come sistema vivente, efficace. Perché obbliga a comportamenti ‘adattivi’, a reazioni costruttive.
La vita del piccolo imprenditore è vita dura. Il piccolo imprenditore lotta quotidianamente per la sopravvivenza. Va avanti e affronta tutto con la forza di volontà, il coraggio, a partire da una motivazione interiore, perché “si è portati” a fare l’imprenditore – da qui spesso l’autodefinizione di persone testarde, cocciute. L’imprenditore difende la propria identità ma, ammaestrato dagli eventi, è lontano da ogni forma di delirio di onnipotenza. Sa che il suo ‘mondo creato’ convive con altri mondi, aggressivi e sopraffattori. Se la singola impresa è sopravvissuta, è perché il singolo imprenditore ha saputo lottare; perché è stato capace di non arrendersi di fronte alle avversità.
Esistono avversità ‘esogene’, legate al ciclo economico o a mutamenti sociali: dall’andamento del dollaro alle derive demografiche; dalle strategie comunitarie europee alle rivoluzioni tecnologiche. Esistono avversità intrinsecamente legate allo stretto ambiente competitivo, agli stimoli dello specifico mercato nel quale l’impresa opera. Esistono anche avversità gratuite -norme di legge e politiche fiscali e politiche di incentivo non rispettose della natura della piccola impresa. Il punto chiave è che di fronte a qualsiasi avversità, quale sia la sua origine, il piccolo imprenditore sa reagire costruttivamente. Sa inventare una risposta creativa, probabilmente diversa da ogni altra, perché radicata su un modello di impresa diverso da ogni altro.
Nel mentre il piccolo imprenditore è assurdamente accusato di non essere capace di innovare, nella realtà egli innova ogni giorno, inventando soluzioni -assolutamente inattese dagli esperti e dagli osservatori esterni. Sta qui soprattutto la grande capacità di produrre ricchezza della piccola impresa: nella capacità di reagire alle avversità.
E paradossalmente si può sostenere che la presenza di avversità -perfino delle avversità gratuite- è virtuosa, perché stimola la reazione creativa, una perenne nascita di nuovi modi di organizzare il lavoro, di produrre, di intendere il prodotto ed il servizio, di soddisfare il cliente.
Nonostante, giustamente, il piccolo imprenditore si lamenti per la durezza della vita che la sua vocazione gli impone, non si tratta quindi di porsi come obiettivo la creazione di un contesto dove il piccolo imprenditore possa vivere una ‘vita più tranquilla’. Tranquillo l’imprenditore non starebbe comunque. Non si divertirebbe, non sarebbe se stesso. Si tratta invece di porsi come obiettivo la costruzione di modelli di rilevazione, di valutazione, di incentivazione in grado di riconoscere e di premiare e di stimolare ulteriormente la più ricca e la più utile delle capacità del piccolo imprenditore. La capacità di innovare.

A cosa serve raccontare
Strumenti di rilevazione e di giudizio imposti dall’esterno alla piccola impresa continuano a fornire risultati in base ai quali la piccola impresa appare incapace di innovare. È una profezia che si autoavvera: per incapacità di andare a guardare, o per cattiva volontà, si usano gli strumenti sbagliati -questionari quantitativi basati su domande chiuse-; si va a cercare quello che non c’è -una innovazione diversa da quella che interessa ed è utile alla piccola impresa-; non si vede quello che c’è.
Il piccolo e medio imprenditore bresciano sa che l’immagine che di lui ha il mondo esterno è lacunosa, inesatta, riduttiva. Proprio sull’impegno a ‘raccontare al mondo’ cosa è davvero la piccola e media industria bresciana si fonda il patto tra il gruppo di ricerca e un consistente numero di imprenditori, che hanno deciso di partecipare al progetto.
La ricerca, dunque, è stata tesa a verificare, o falsificare, questo concetto, definito a priori come ipotesi di lavoro:

L’innovazione latente

Davvero la Piccola e Media Impresa italiana è arroccata su criteri di gestione conservatori e arretrati, come vorrebbe una certa opinione “ufficiale”? Oppure è vero che la Piccole e Media Impresa vive grazie a un’incessante capacità di produrre innovazioni (di qualsiasi tipo: produttive, commerciali, tecnologiche, organizzative, gestionali…)? Per rispondere a questi interrogativi non possiamo fare altro che andare a chiederlo a chi ‘sa le cose’. Le sa perché le fa e le vive e le costruisce e le inventa ogni giorno.

Il tema stesso della ricerca ha suscitato, di primo acchito, una certa meraviglia negli imprenditori. Nessun piccolo imprenditore può, per un solo istante, dubitare del fatto che, essendovi costretto, pena la propria sopravvivenza, innova continuamente. La necessità di una innovazione continua è talmente insita nella quotidianità tanto da apparire scontata. Perché dunque prendersi la briga di dimostrare questa ovvietà.
E però resta il fastidio per l’immagine riduttiva di cui si gode. E resta la convinzione che adeguati parametri di rilevazione e di valutazione possano rendere più fruttuoso l’impegno dedicato all’innovazione. Perciò il piccolo o medio imprenditore bresciano, se pure ha poche speranze di riuscire a far cambiare idea, è interessato a provarci. Tanto da finanziare la ricerca e da dedicarvi del tempo.
Resta difficile comunque avvicinare il tema.
Sembra di sfiorare argomenti dei quali si preferisce non parlare, e cioè il know how sul quale si fonda il vantaggio competitivo della singola impresa. E a questo si risponde, in sede di presentazione ed in sede di intervista, che naturalmente non si chiede di svelare segreti, e che l’obiettivo della ricerca riguarda proprio il come dare il giusto valore a ciò che di diverso e di nuovo si sa fare.
Allo stesso tempo è difficile trovare il filo del discorso, perché -se si esce dalla dimensione dell’innovazione tecnologica e dell”invenzione’- si parla di cose troppo normali, cose che si è abituati ogni giorno a fare, cose che si è obbligati a fare, alle quali non si è abituati ad attribuire valore. Cose delle quali nessuno ha mai chiesto di parlare: la creatività organizzativa, la socializzazione delle conoscenze, la gestione delle risorse umane.
All’imprenditore a tratti sembra strano attribuire valore a tutto questo. L’imprenditore innova non da oggi, l’ha sempre fatto. Il suo stesso modo di produrre e di organizzare il lavoro è una invenzione, una modalità originale. L’inventare è più connaturato del seguire un qualsiasi modello di comportamento imposto dall’esterno. La scelta di costruire un mondo a propria immagine e somiglianza è anche la scelta di utilizzare, delle esperienze altrui, solo ciò che si ritiene consono al proprio carattere, al proprio modo di agire. Non per questo si tratta di un sistema chiuso: l’imprenditore e la sua impresa apprendono giorno dopo giorno, e sanno anche scegliere di cambiare radicalmente, quando la sopravvivenza l’impone – ma l’apprendimento è sempre focalizzato attorno a conoscenze di base e punti di vista solidi, letto alla luce di una cultura e precisi valori.
Perciò all’imprenditore che racconta il contenuto della narrazione appare “tutta roba non troppo difficile”, anche quando in realtà parla di innovazioni geniali, o esprime concetti particolarmente complessi. Ogni tema è già elaborato alla luce di un’esperienza. Ogni cosa raccontata è stata già fatta, o sarà fatta, con mezzi sui quali si ha un pieno controllo. Mentre il manager o l’operaio di una grande impresa -impegnati in attività di cui non hanno il controllo e che spesso appaiono ai loro occhi prive di ragione- trovano nel raccontarsi una occasione per elaborare l’esperienza, per trovare una ragione dietro alle proprie azioni, l’imprenditore, e lo stesso operaio della piccola impresa, proprio loro che avrebbero veramente qualcosa da raccontare, ritengono inutile raccontare, e non hanno bisogno di raccontare, perché il loro racconto è la stessa costruzione del mondo.
Il ‘romanzo’ del piccolo imprenditore è l’impresa che ha tirato su da dal nulla. Per lui parlano i muri, le macchine, il magazzino, i prodotti, l’organizzazione del lavoro. La narrazione sentita come più profondamente vera non è il rispondere a un questionario, o il raccontare la propria storia di vita, ma sta nel mostrare il proprio stabilimento.
Perciò appare aspetto fondamentale del metodo di ricerca adottato, anche da un punto di vista simbolico, la dimensione dell’incontro. L’intervistatore, munito di qualche strumento -il registratore, la traccia di intervista, ma munito soprattutto della consapevolezza della propria ignoranza di fronte a questo mondo straniero- si reca in visita presso l’impresa. L’imprenditore parla dal centro del suo mondo, e nel mentre racconta mostra il suo mondo.
Con tutto questo la parte centrale del libro apparirà forse ai veri autori di questa storia ridondante, superficiale, inutile. Ma vorremmo che loro pensassero al destinatario di questa narrazione, che è appunto ignaro (in latino ‘in- gnarum’, ‘non a conoscenza’). Chi, se non l’imprenditore stesso, che è (g)narum, ‘esperto’, può narrare? ‘Narrare’, non a caso, deriva da (g)narum, così come raccontare è in origine ri-contare, tornare a ripetere un conto, un calcolo – dunque, una operazione familiare ad ogni imprenditore: in fondo, il racconto non è che è un inventario delle cose fatte e viste.
Troppo spesso l’immagine della piccola impresa passa attraverso la parola di esperti che sono in realtà ignari, perché -tutti presi dal loro ruolo di coloro che sanno- non hanno mai veramente ascoltato la voce dell’imprenditore.
Dalla infelice mediazione di questi esperti è emersa l’immagine della piccola impresa come mondo incapace di innovazione. Solo ridando la parola all’imprenditore questa fallacia può essere smascherata.

I parametri di misura
L’imprenditore non rifiuta di essere misurato, se non altro perché si auto-misura quotidianamente. Critica, rifiuta, subisce -ed utilizza comunque positivamente come vincoli esterni che lo spingono ad innovare- le modalità di rilevazione e di valutazione che -opera di ‘esperti’, in realtà ignari- non gli appaiono in grado di portare alla luce la ricchezza da lui creata.
Gli strumenti di rilevazione e di misura, anche quando lo appaiono, non sono mai innocenti ed ‘oggettivi’. Lo dimostra un recente dibattito -solo apparentemente lontano dal nostro ambito di indagine-. Il dibattito che ferve intorno ai fondamenti della cosiddetta New Economy.
I contabili -e gli stessi manager d’impresa- tendono a restare fedeli a valutazioni consolidate: preferiscono non mettere a bilancio patrimoniale nulla che potrebbe rivelarsi in futuro senza valore. Invece i venture capitalist e la borsa qualche volta magari esagerano e sopravvalutano, ma sanno guardare al valore futuro nascosto in quelli che oggi appaiono solamente costi. Di qui l’apparente assurdità di una situazione che vede premiate dagli investitori imprese che accumulano perdite.
Tutto questo, naturalmente, è reso particolarmente significativo dal fatto che Information & Communication Tecnology, Internet, biotecnologie, ci mostrano che le imprese di successo sono Research & Development based Enterprises; Science-based Companies; Knowledge-based Enterprises; Intangibles-Intensitves Companies. Imprese il cui valore sta in risorse immateriali. Sta nel parco clienti acquisiti, ai quali in futuro potranno essere offerti più prodotti o servizi. Sta nel brand, che permette di vendere in futuro prodotti o servizi a prezzi più alti della concorrenza. Sta nella capacità organizzativa, non grandi innovazioni o invenzioni, ma l’attitudine a realizzare sistemi di lavoro sempre nuovi, più efficaci e snelli rispetto alla concorrenza. Sta in ciò che si sta sviluppando nei laboratori di ricerca, e che in futuro potrà trasformarsi in prodotti vendibili. Sta, infine, ‘nella testa delle persone’, o nelle basi dati che raccolgono ciò che le persone hanno pensato, sta insomma nel knowledge.
Sembra un contesto lontano dal mondo della piccola impresa bresciana. Invece, i punti di contatto sono notevolissimi. L’universo imprenditoriale al quale facciamo riferimento, e del quale cerchiamo di portare alla luce i valori fondanti, sono in significativa misura Research & Development based Enterprises; Knowledge-based Enterprises; Intangibles-Intensitves Companies. Meriterebbero, per la loro intrinseca capacità di produrre ricchezza attraverso l’innovazione, fonti di finanziamento -di Borsa e di venture capital- paragonabili a quelle di cui dispongono le nuove imprese statunitensi. Rispetto a queste, manifestano una forte analogia e presentano, forse, un punto di vantaggio. L’analogia sta nel fatto che si tratta di imprese in grande misura nate attorno a una forte e mirata competenza tecnologica. Il punto di vantaggio sta nel fatto che nel nostro caso ci troviamo di fronte ad imprese guidate da imprenditori sperimentati, e non da giovani talenti ricchi solo di idee.
Sia per nuove imprese statunitensi, sia per l’imprenditoria bresciana, al centro stanno le idee, le nuove idee. La conoscenza coltivata e tradotta modalità organizzative, in scelte produttive, in politiche di mercato.
Ma come si fa a stabilire il valore della conoscenza? Come si fa -al limite- a mettere a bilancio le idee? Si tratta,appunto, di un problema di parametri di misura.
Misurare il valore di in immobile, o di un impianto industriale, o di un prodotto o servizio consolidato, è relativamente facile. Perché ci si basa sul passato: su ciò che si è già fatto e quindi si è imparato a misurare. Misurare il valore della conoscenza, invece, significa formulare inferenze particolarmente rischiose, tutte giocate su ‘cosa accadrà domani’. Significa saper intercettare i trend: di ciò che oggi stiamo studiando in laboratorio, cosa interesserà ai clienti?
Si sostiene addirittura -crediamo a ragione, pur senza sottovalutare le implicazioni insite in questa ipotesi di lavoro- che dovrebbero addirittura essere messi in discussione i fondamenti del metodo contabile -la partita doppia- che adottiamo da cinquecento anni, e che fino ad oggi si è dimostrato efficace.
Per gli attuali parametri di rilevazione, la creazione del valore è legata allo scambio, al momento della transazione. Accade così che la ricchezza insita in ricerca e sviluppo -ricchezza in effetti già esistente, già creata- appaia, contabilmente, solo sotto forma costo. E invece servono forse, si dice, strumenti contabili nuovi, in grado di quantificare le risorse e i profitti intellettuali. Strumenti in grado di portare a bilancio oggi una stima del valore che le conoscenze saranno in grado di generare in futuro. Strumenti in grado di misurare il profitto legato alla conoscenza.
Questo dibattito, ripetiamo, è molto più vicino al nostro campo di ricerca di quanto appaia a prima vista. Assodato che la piccola impresa bresciana, dimostrato, speriamo efficacemente, che proprio su questa capacità di innovare si fonda il valore delle imprese, appare fondamentale individuare strumenti di rilevazione non penalizzanti, in grado di portare alla luce la capacità innovativa. Solo così la capacità -trovando adeguate fonti di finanziamento e di sostegno e di valutazione premiante- potrà estrinsecarsi in tutte le sue potenzialità.
La ricerca propone quindi -pur con la piena consapevolezza della complessità del tema- un primo avvicinamento alla definizione di ‘strumenti di misura della capacità innovativa’.
Gli strumenti vogliono essere utili per una autovalutazione da parte dell’imprenditore. Se però ci si fermasse a questo, si tratterebbe di ben misera cosa: l’imprenditore sa già di essere un innovatore. Lo sa fino al punto di considerarla una cosa scontata, ovvia.
Ciò che l’imprenditore chiede questa ricerca non è in grado di darlo, se non -speriamo- sul piano di una prima approssimazione al tema. Ciò che l’imprenditore chiede è un ripensamento dei parametri attraverso i quali il mondo esterno -il mondo finanziario, il mondo politico- valuta e riconosce la capacità innovativa della piccola impresa.

La rilevazione della capacità innovativa come autovalutazione negoziata
Apparirà a questo punto chiaro perché parliamo di innovazione latente.
La capacità innovativa della piccola impresa, se non ci si rifiuta di vederla, non può essere negata. È comunque una capacità latente: nascosta, non immediatamente visibile. Perché l’imprenditore la considera capacità talmente necessaria per la mera sopravvivenza che finisce per sottovalutarla. Perché si tende a considerare poco nobile quello che è esercizio quotidiano, pane di tutti i giorni. La capacità innovativa, dunque, essendo data per scontata, non viene mostrata.
Dall’altro lato stanno ‘conoscitori legittimati’ -ricercatori, docenti universitari, consulenti- che si muovo considerando la piccola e media impresa un oggetto d’indagine avvicinabile dall’esterno, tramite strumenti standard: ricerche quantitative, statistiche, modelli matematici. Strumenti inadeguati, che contribuiscono per la loro parte a lasciare latente la capacità innovativa della piccola e media impresa. Perché servono strumenti diversi, di tipo etnografico: solo andando a visitare la singola piccola impresa -intesa come un mondo straniero, unico ed irripetibile, modello di se stesso- sarà possibile coglierne le logiche organizzative e produttive.
Per andare a visitare si deve essere invitati. In questo senso appare esemplare, pur con i suoi limiti, la strategia di avvicinamento adottata in questa ricerca. Si va come ospiti, si chiede permesso, si prova piacere a scoprire, attraverso le parole del padrone di casa, un mondo nuovo.
La ricerca si ferma qui, ma permette di ipotizzare passi successivi. Principalmente in merito alla valutazione -e quindi al finanziamento, al sostegno e all’incentivazione- della capacità innovativa.
I sistemi di rilevazione oggi adottati si concentrano essenzialmente sull’innovazione tecnologica. L’approccio etnografico, e la scelta di stimolare il racconto ci permettono di allargare lo sguardo e di cogliere un ben più vasto fascio di atteggiamenti innovativi.
Il materiale raccolto permette di individuare indicatori che sembrano applicabili non solo al campione, ma al complessivo universo delle piccole e medie imprese bresciane. Alcuni indicatori corrispondono, ovviamente, ad indicatori già usati in altri contesti e presentati dalla letteratura. Ma la scelta metodologica adottata ha imposto ai ricercatori di guardare a queste coincidenze solo a posteriori: dal campione emerge una serie di indicatori, e questo basta. Gli indicatori scoperti altrove da altri ricercatori, o altrove elaborato studiosi sono dal nostro punto di vista irrilevanti.
I risultati emersi della ricerca, inoltre, permettono di prefigurare in modo sufficientemente preciso un processo valutativo efficace, coerente con le aspettative degli imprenditori e con la natura del modello economico che vede ogni singola piccola impresa una organizzazione diversa da ogni altra.
Definita la serie di indicatori, l’imprenditore esprime una autovalutazione. L’autovalutazione è quindi oggetto di negoziazione con l’Ente Premiante. Il singolo imprenditore è direttamente coinvolto in un processo teso a far emergere e a valorizzare le capacità latenti all’interno della sua impresa. La valorizzazione premia l’utilizzo della capacità, e si concretizza inoltre in stimolo a darle più spazio in futuro. Aspetto fondamentale del processo è la negoziazione: attorno al tema della valorizzazione della capacità innovativa viene intavolata una trattativa; la scelta della innovazione da ‘premiare’ e la stessa natura del ‘premio’ sono frutto di un accordo.

Dalla ‘conoscenza tacita’ alla ‘capacità latente’
La scelta di dare vita a una ricerca -potremmo chiamarla a buon motivo ricerca-intervento- riguardante in mondo della piccola e media impresa bresciana è nata da una riflessione sul metodo. Trovato un interlocutore interessato nel Presidente della Sezione Piccola Industria AIB Associazione Industriale Bresciana, si è ragionato attorno al come attraverso un impianto di ricerca fondato su un approccio etnografico, sul coinvolgimento attivo dei partecipanti, su interviste non direttive e non strutturate fosse possibile portare alla luce aspetti di un mondo altrimenti invisibili. Aspetti esistenti, certo, ma non palesabili attraverso altri strumenti di indagine.
La riflessione si è spostata quindi sulla definizione del campo di ricerca. Se il metodo permette di ‘scavare’ e ‘portare alla luce’, quale è il ‘materiale’ che più merita questo lavoro? Si è scelto così di focalizzare la ricerca attorno al tema dell’innovazione. Perché è in cuore dell’atteggiamento imprenditoriale. Perché tracce e segnali deboli permettevano di ipotizzare che l’imprenditore bresciano avesse molto da raccontare sull’argomento. E perché, al tempo stesso, il piccolo e medio imprenditore è comunemente accusato di essere incapace di innovare.
Lo scavo avrebbe potuto avere come fine la scoperta di aree di ‘conoscenza tacita’, conoscenza non espressa apertamente. E certo la cultura di ogni impresa bresciana è ricca di conoscenze tacite, non proceduralizzate, non formalizzate, usate in uno stato si semi-consapevolezza.
Si sarebbe trattato però in questo caso di un obiettivo buono per un istituto di ricerca, o per una business school.
Giustamente più pragmatica l’aspettativa del committente: non una ricerca sulla cultura, ma una ricerca che attraverso la lettura della cultura portasse concreti contributi al business.
In entrambi i casi si trattava di ‘scavare’, o per meglio dire di calarsi nel profondo, ‘visitare luoghi oscuri’, sotterranei dell’organizzazione, zone mentali dove agisce l’inconscio o il pre-conscio. Sia nel ‘tacito’ che nel ‘latente’ c’è non a caso un implicito rinvio alle zone oscure: ‘tacito’ rimanda a ‘notturno’, ‘latente’ rimanda a ‘tenebra’. Ma le zone oscure, normalmente non visitate, possono essere attraversate con scopi diversi.
Uno dei possibili limiti della ricerca di tipo etnografica tesa alla ‘scoperta di un mondo sconosciuto’ sta nel ‘contentarsi di aver portato alla luce i materiali’, nel ‘contentarsi di quello che si trova’. Invece, anche in una ricerca così impostata è possibile porsi obiettivi conoscitivi meno vaghi, più concretamente vicini alle attese del committente. E va a merito del nostro committente aver coerentemente preteso tutto questo.
Si è dunque consapevolmente mirato a portare alla luce non generiche ‘conoscenze’, ma precise ‘capacità’, funzionali allo scopo dell’impresa. La conoscenza utile al business è la conoscenza che si concretizza in capacità. Il ‘sapere’ che conta, per il piccolo e medio imprenditore, è ‘saper fare’.
Il ‘saper fare’ più ricco, in quanto indispensabile strumento di sopravvivenza, è il ‘saper innovare’.