Nuove parole del manager


E’ uscito nel novembre 2011, presso Guerini e Associati, Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda.
Nel 2006 avevo pubblicato, presso lo stesso editore, Le parole del manager. 108 voci per capire l’impresa.
I due libri condividono l’impostazione. Ma le parole sono scelte con un criterio un po’ differente. Non solo, come nel libro del 2006, le parole normalmente usate  dal manager – usate non di rado, purtoppo, senza troppo badare al loro significato. Ma anche e sopratutto le parole che, stando al mio modesto parere, oggi il manager dovrebbe usare: responsabilità, futuro, scopo, speranza, progetto.
Di qui il riferimento, nel sottotitolo, non più all’impresa, ma all’azienda. Parlare di azienda, infatti, significa porre l’accento sull’agire di soggetti diversi in vista di uno scopo almeno in parte condiviso.
Non mancano anche, nel nuovo libro, parole sulle quali una triste attualità ci impone di soffermarci: bancarotta, default.
Qui di seguito potete leggere l’Introduzione. Qui, invece, trovate due parole. Qui ne trovate un’altra.

Introduzione

Comò e credenze, cappelli, carrozze, porzioni venefiche che sono anche bevande ristoratrici, rilievi montuosi sulla luna, denti incisivi, le curiose proprietà dell’ambra gialla, le gride di manzoniana memoria, vasi di terracotta, muscoli guizzanti come topi, i talenti di allibratori e prostitute. Seguire la rotta nonostante venti avversi; rimbalzare indietro; scegliere strade diverse; tornare sui propri passi e chiedere perdono; muoversi di qua e di là senza apparente meta; tirare al bersaglio; tessere; esprimere un desiderio; sfiorare con gesti gentili le corde di uno strumento musicale.
Ogni cosa può esser detta solo attraverso parole. E dunque, porre attenzione alle parole significa tornare a porre attenzione al senso. Seguendo la storia di parole usurate dall’abitudine possiamo tornare a riflettere sul nostro modo di agire, sul perché, e sul come lavoriamo.
Concetti che siamo portati a dare per assodati –libertà, proprietà, pubblico e privato, merito, credito, responsabilità– rivelano, se appena si segue la storia della parola con po’ di attenzione, senza pregiudizi – una abissale profondità.
Ogni parola porta con sé una storia. Ripercorrere queste storie è uscire dalla narcosi causata dall’abuso di frasi fatte, dall’uso frettoloso di termini sui quali, ci pare, non c’è tempo di soffermarsi. Eppure, porre attenzione alle parole è cercare la sintonia con noi stessi. Ne guadagnerà in qualità ed in soddisfazione, in attenzione a ciò che stiamo facendo- il nostro lavoro.
La lingua, se usata senza cura, porta a trappole, appiattimenti e secche perdite di ricchezza: sentirsi un talento non è cosa così lusinghiera: significa essere una moneta in mano ad altri, moneta che può essere sotterrata o spesa da altri, a loro piacimento e vantaggio. Ben diverso è avere talenti, avere ‘moneta da spendere’, doti e doni da usare.
E sembra in apparenza un pregio per il manager essere deciso. Ma se si pone orecchio al senso, siccome decidere sta per ‘scegliere’, e anzi alla lettera per ‘tagliare’, si intende che si decidono le situazioni, non le persone. Cosicché essere decisi significa essere oggetto di scelte di altrui, di decisioni, tagli, inflitti sulla nostra pelle – o più sinteticamente, ci parla di ‘essere tagliati via’.
Dà da pensare l’osservare come, in innumerevoli casi, parole tecniche che ci risultano indispensabili non fanno che ricalcare ciò che era già ben definito e consolidato nell’uso nell’antica Roma. Ed è fonte di utile insegnamento scoprire come parole che sembrano venire dal Medioevo sono state invece inventate di sana pianta da romanzieri costretti a scrivere di fretta, pressati dai creditori. E’ istruttivo osservare come “cose intricatissime”, come il concetto di merce, possono essere resi accessibili con metafore, con narrazioni racchiuse in una immagine.
Possiamo anche provare a metterci nei panni di chi, di fronte a qualcosa di nuovo, ha inventato, o reinventato una parola. Ed ecco così Giorgio Vasari trovarsi ad usare una parola allora stranissima per parlare di figure avvinte nel marmo di una statua. Ecco Robert FitzRoy che definisce per noi l’idea di forecast. Ecco Gramsci che per primo parla di fordismo. Ecco Humberto Maturana e Francisco Varela inventare il termine autopoiesi – termine che sarà poi usato, in contesti diversi, ben al di là delle loro intenzioni. Ecco quel laburista inglese che inventa -ma per criticarne l’idea sottesa- l’espressione meritocrazia. E quel suo conterraneo conservatore che per primo, per descrivere una situazione che sfugge al quadro di definizioni stabilite dagli economisti, parla di stagflazione.
Non possiamo dimenticare che le parole ci si presentano sempre in una duplice veste.
Da un lato, sono sempre le stesse parole, già dette da tempo immemorabile: di questo testimoniano le radici indoeuropee – sempre fonte di misterioso ammaestramento, per la loro capacità di presentarci i concetti purificati dalla sintesi estrema.
Dall’altro, le parole sono continuamente reinventate, riusate in modi nuovi. Per questo ci illumina il passaggio da lingua a lingua: dallo stesso verbo latino, e dalla stessa remota idea del ‘fare’, abbiamo l’italiano azienda e l’inglese factory.
Eppure, così come può arricchire, il passaggio da lingua a lingua può impoverire. L’inglese record ci mantiene lontani dall’idea del ricordo, e ci nega l’immagine di cui la parola è portatrice: non c’è memoria, non c’è ricordo se è assente il cuore – se mancano sensibilità, sentimenti, emozioni.
Possiamo tradurre l’inglese externalization con esternalizzazione e esteriorizzazione, ma varrebbe la pena di ricordare che la nostra lingua ci propone un bel verbo, esternare, da cui l’esternazione.
Anche al nostro orecchio impigrito ed assuefatto al banale modo parlare propostoci dalla televisione e dalla stampa, suonano male -se appena ci facciamo caso- verbi come outsoursare, deployare, spinoffare, upgradare, taggare.
Questo libro, aiuta a ricordare che esistono, nella nostra lingua, buone alternative. Belle parole da usare non alla ricerca di un gratuito, snobistico purismo. Ma perché ‘dando i nomi alle cose’, guardando da vicino, dietro e intorno alle parole che usiamo ormai senza troppo pensare, ci sarà possibile riscoprire la disponibilità alla sorpresa – in fondo, la scelta dei ‘modi di dire’ è la prima manifestazione della nostra creatività, della nostra disponibilità al cambiamento e all’innovazione, del nostro innato orientamento al lavorare con cura, del nostro interesse a intraprendere qualcosa di nuovo.
Il libro vuole quindi essere un invito a cercare i propri percorsi, tra e con le parole, nel lavoro e nella vita intera.
Con questo, spero vivamente che il libro appaia lontano da qualsiasi intento normativo, prescrittivo, ed appaia invece come una pura raccolta di microstorie, di narrazioni. Avrei senza dubbio potuto ricostruire il senso in modo diverso. Nel ragionare attorno ad ogni parola, ho seguito il mio estro, la mia fantasia. Anche la scelta delle parole è arbitraria e personale. Certamente altre parole avrebbero meritato una riflessione – ma queste sono le parole che hanno colpito la mia attenzione, le parole che mi frullano nella mente.
Vi propongo queste parole perché le ritengo importanti, e spero che appaiano importanti anche a voi. Ma soprattutto spero che queste mie parole vi stimolino a cercare le vostre. Faccio quindi mio questo pensiero di Wittgenstein: “non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé”.1
Siccome questo libro è l’ideale prosecuzione di un libro precedente, Le parole del manager, mi compete qui dire in cosa se ne discosta.
L’impianto è identico, così come la lunghezza delle voci -retaggio di quando, ormai quasi vent’anni fa, le prime apparivano come rubrica sul Sole 24 ore-.
Ciò che è cambiato, credo, è il criterio con cui ho, prevalentemente, scelto le parole. Certo, troverete sempre parole del quotidiano lessico del management -così come nel primo libro budget, mission, re-engineering, qui freelance, intangible, skill-. Ma nel frattempo ho scritto un libro, Contro il management, con il quale ho preso posizione. Così ora, mi pare, mi sono allontanato da un atteggiamento descrittivo per dare più spazio ad un atteggiamento critico. Perciò in questo libro troverete in maggior misura, accanto alle parole che si usano, parole che, a mio modesto parere, si dovrebbero usare: responsabilità, cura, guida, diversità, differenza, progetto, speranza.
E troverete anche voci che, a partire dalla storia della parola, tornano a narrare di concetti importanti, sui quali dovremmo riportare l’attenzione: proprietà, privato, pubblico, libertà, solidarietà, comunità.
Lo scostamento dall’altro libro è sintetizzato nella lieve differenza del sottotitolo: non ‘voci per capire l’impresa’, ma ‘voci per capire l’azienda’. Se infatti l’impresa è la simbolica affermazione di un progetto individuale, l’idea di azienda rimanda ad un luogo dove -affinché lo stesso scopo dell’imprenditore possa essere perseguito- i diversi interessi in gioco trovino modo di contemperarsi.
Ma devo dire anche di una circostanza esterna, che credo faccia il libro diverso dal precedente. Sono passati pochi anni, ma sono bastati per vedere enormemente incrementate le fonti disponibili sotto forma digitale, via World Wide Web. Sono rimasto fedele alla mia edizione cartacea dell’Oxford Dictionary, e ai miei cari dizionari etimologici, innanzitutto il prezioso Avviamento alla etimologia italiana di Giacomo Devoto. Ma oggi troviamo sulla Rete il dizionario Treccani e le diverse edizioni del Dizionario della Crusca. Ben più vasta la disponibilità di fonti in altre lingue: innumerevoli dizionari, l’Indogermanisches etymologisches Wörterbuch di Julius Pokorny2. La Perseus Digital Library3 E il Glossarium mediae et infimae latinitatis di du Cange. E naturalmente il testo completo delle opere di Dante4 e di Shakespeare. Ma anche, ormai, è alla portata di ognuno la possibilità di cercare una parola dentro qualsiasi libro. Così, cambia il modo di lavorare sulle fonti. Ho potuto formulare una ipotesi: è presumibile, mi sono detto, che Conrad, con la sua attenzione per la professionalità, e con il suo inglese preciso appreso da adulto, usi la parola skill. Non è stato troppo difficile verificare che l’ipotesi era fondata.
Ancora, utilizzando l’n-gram viewer di Google5 è possibile osservare visivamente come si evolva nel tempo l’uso delle parole: così, ecco schizzare in alto, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, nei libri scritti in Gran Bretagna, tre parole: liberalization, privatisation, deregulation.
Cambia così il modo di lavorare: si è chiamati a muoversi nell’abbondanza; e quindi -mentre risulta sempre più evidente che il percorso di senso seguito, la narrazione proposta, non sono che una delle infinite scelte possibili- acquista più importanza la scelta personale, il percorso mentale, l’intuito che mi guida. Anche per questa via, arrivo a dire che il libro è un invito a trovare e seguire un proprio percorso. Ma poi, è proprio l’importanza di questa via ‘digitale’ -che a ben guardare cambia radicalmente il modo di lavorare e di rapportarci con la conoscenza- a farmi considerare importanti parole e concetti che hanno a che fare con l’informatica: codice, dato, digitale, documento, computer, Semantic Web.
Nei miei intenti, ho già scritto, ogni voce è una narrazione, una storia in sé compiuta, con un suo ritmo, un suo sviluppo. La struttura del libro, dunque, permette di leggere una storia dopo l’altra, accettando la sequenza proposta dall’ordine alfabetico. Per questo ho giocato ponendo all’inizio e alla fine due parole che possono ben essere apertura e chiusura del viaggio che propongo: agenda e wizard. Ma naturalmente un libro come questo è fatto anche, e soprattutto, per essere interrogato a partire dall’Indice dei nomi. O, preferirei, sfogliato a caso, seguendo ispirazione e coincidenze.
Troverete, spero, spunti buoni per riflettere sul lavoro che state svolgendo, citazioni e rimandi utili ad allargare lo sguardo.
Spero che leggerete con atteggiamento curioso. Curiosus è in latino ‘chi si prende cura’ – cura delle persone e dei progetti che ritiene importanti, ma anche di cose che in apparenza ‘non lo riguardano’. In apparenza: riscoprire il senso delle parole ci aiuta ad andare oltre le apparenze.

1 Ludwing Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953; cito dal Ludwig Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989. Vorwort, p. 231-232; trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967. Prefazione dell’autore (scritta negli anni ‘40), pp. 3-4.
2 Accessibile attraverso diversi indirizzi di dominio. Vedi p. es. questo.
3 Perseus Digital Library: http://www.perseus.tufts.edu/
4 http://dante.di.unipi.it:8080/DanteSearch/
5 http://ngrams.googlelabs.com