Avventure informatiche


Questo testo è rielaborazione e aggiornamento di un paragrafo dell’Introduzione del mio libro Macchine per pensare, Guerini e Associati, in libreria nel gennaio 2016; primo volume del Trattato in Informatica Umanistica.

Ho vissuto varie avventure informatiche. Era l’83, o ’84, analista di organizzazione presso una Grande Casa Editrice, mi occupavo del decollo del Stabilimento Nuove Preparazione. Credo fosse il primo stabilimento in Europa. Fotografi, selezionatori, ritoccatori, correttori, premontaggisti, montaggisti: numerose figure professionale scomparivano, sostituite da una costosissimo Sistema Integrato. Tecnologia avanzata israeliana: Scitex. Ciò che gli specialisti facevano con un ingranditore fotografico, con un pennellino, con le mani, ora si ricomponeva in un’unica mansione, svolta di fronte ad uno schermo a colori, utilizzando una tastiera, e una tavoletta simile a ciò che avremmo poi chiamato mouse. Preparazioni elettroniche. Necessità di cambiare cultura. Uno dei tanti avvicinamenti alla cultura digitale che abbiamo vissuto negli ultimi decenni.
Meno di dieci anni dopo, nel ’91 ero Direttore Generale della casa editrice del settimanale Cuore. Nelle grandi case editrici si tentava ancora di introdurre sistemi Scitex, o simili. Ma io conoscevo i processi e le tecnologie. Ciò che offriva Scitex era disponibile tramite i programmi di un Apple: Quark X Press per impaginare, Freehand o Illustrator per la grafica vettoriale. Al posto degli enormi scanner Scitex un piccolo scanner da tavolo. Cuore fu il primo periodico, in Italia, ad essere chiuso con le pagine complete in redazione. Quando comprai il programma di fotoritocco Photoshop, il numero successivo di Cuore uscì con in prima pagina la foto del Papa seduto tra due donne nude.
Due anni dopo, insieme a un amico, ho fondato il settimanale Internazionale. Ho conosciuto questo amico, giornalista, accompagnandolo nella sua ricerca di un editore. Un giorno, usciti da un poco promettente colloquio con un potenziale editore, gli ho detto: “Guarda che se si dominano le tecnologie e i processi non c’è bisogno di una grande casa editrice alle spalle”.
Torno per un attimo indietro: in quella stessa Grande Casa Editrice dove avevo lavorato alle Nuove Preparazioni, nell’86, ero Direttore dei Servizi per le Redazioni. L’area comprendeva il Centro Documentazione destinato a fornire informazioni ai giornalisti. La sfida, sostenuta dall’Amministratore Delegato, era il progetto di digitalizzazione. Si trattava di sostituire archivi fisici contenenti buste che ospitavano articoli di giornale con una Banca Dati Full Text. Sembrava una chimera. Si usava -era una delle prime applicazioni in Europa- STAIRS, Storage and Information Retrieval System, programma in real time che girava sul Mainframe IBM. I giornalisti a quei tempi scrivevano con macchine per scrivere. Il codice digitale degli articoli era recuperato presso lo Stabilimento di Preparazione, facendo lavorare a rovescio le tastieriste: in questo caso, anziché scrivere dovevano cancellare, eliminando dai files i comandi che servivano a pilotare la fotounità.
Si doveva aggiungere al testo di ogni articolo un abstract e un certo numero di parole chiave.
Il personale interno non era sufficiente per questo lavoro di schedatura. Si creavano così gravi colli di bottiglia nel caricamento dei dati. Dovetti assoldare studenti universitari che leggendo i giornali, a a casa loro, con il proprio Personal Computer, scrivevano abstract e parole chiave.
Non c’erano allora reti client/server, tantomeno si disponeva di accessi a Internet. Gli studenti consegnavano ogni giorno i loro floppy disk. Feci scrivere un programma che accoppiava al testo dell’articolo la sua schedatura.
Presto si presentò un altro problema. Oggi, mentre scrivo, ognuno di noi ha in tasca, su una chiavetta o sullo smartphone qualche giga di memoria. Ma allora, trent’anni fa, il costo della memoria era esorbitante. I miei superiori ogni anni mi chiedevano di cancellare gli articoli degli anni precedenti. Solo in virtù del mio accanimento oggi sono disponibili sul Web gli articoli di quegli anni di diverse riviste e di uno dei principali quotidiani italiani.
Ma l’aspetto più emozionante e istruttivo di questa esperienza sta su un fronte diverso. Sta nell’umano uso della macchina.
Il personale dell’Archivio -come accade in molte organizzazioni- era selezionato al contrario: chi appariva inadatto ad altri lavori più qualificati, veniva mandato lì, in questa ultima frontiera dell’organizzazione, non a caso ribattezzata Corea, Inferno, Ultima Spiaggia.
Gli addetti all’archivio lavoravano armati di forbici a ritagliare articoli, inserirli in buste disposte in ordine alfabetico. Poi, su domanda dei giornalisti, estraevano le buste dagli scaffali. Il progetto prevedeva un cambiamento radicale. Il passaggio da ‘archivista’ e ‘documentalista’ è abissale: un conto è usare le forbici, imbustare un articolo e disporlo su uno scaffale, un conto è lavorare a un terminale, aggiungendo metadati a un documento.
Ancor più nuovo e inusitato era il lavoro di ricerca. A fronte della domanda di un giornalista, il documentalista interrogava la Banca Dati. STAIRS è un precursore di quegli strumenti che conosciamo come ‘motore di ricerca’. Ma è molto più sofisticato di Google. Si doveva interrogare la macchina usando puri operatori booleani: and, or, if.
Si pensava, naturalmente, che nessuno dei dipendenti dell’Archivio sarebbe stato capace di transitare dalle vecchie alle nuove mansioni. Ma invece quasi tutti -mossi dalla necessità, sfidati nell’orgoglio personale dalle dimensioni del cambiamento- appresero molto bene. Da allora non credo nel digital divide. Non c’è nessuna barriera che impedisce di comprendere il senso degli strumenti informatici. I nativi digitali non godono di vantaggi rispetto a chi è nato nei tempi della carta e del libro. Ciò che serve, per tutti, sono narrazioni adeguate. Per questo il libro che state leggendo è innanzitutto una narrazione.
Qualche anno dopo, nel ’95, lavoravo in una scuola di formazione, oltre al lavoro presso i clienti, docenza e consulenza, avevo l’incarico di ristrutturare su base digitale l’archivio interno. La soluzione più ovvia e immediata era introdurre Lotus Notes, applicazione leader di mercato, giunta al terzo rilascio, ambiente di lavoro collaborativo che rispondeva -in apparenza- a tutte le esigenze di conservazione e condivisione delle conoscenze e che si presentavano presso la scuola. Ma ad un occhio attento Lotus Notes mostrava debolezze su tutti i fronti. Lo standard proprietario di gestione della posta elettronica era ovviamente perdente rispetto al protocollo universale di Internet, il database era limitato nell’architettura e macchinoso nell’uso, il motore di ricerca interno era meno potente di un software specializzato.

Vent’anni dopo, in grandi organizzazioni ancora si suda sangue per dismettere Lotus Notes, da tempo una evidente palla al piede. Ma allora, nel ’95, serviva un po’ di coraggio e di visione per puntare su Microsoft Exchange e su un software per l’information retrieval. Non facile spiegare ai colleghi consulenti -che pure andavano presso i clienti a consigliare autorevolmente come cambiare l’organizzazione e come conservare le conoscenze- la conseguente necessità di passare a Windows NT, e quindi la necessità di cambiare il server.

L’attesa del nuovo server, intesa come simbolico momento di di passaggio, divenne spasmodica. Un giorno i fattorini portarono un enorme scatolone. Uno dei senior partner, che passava per caso in corridoio, esclamò, richiamando l’attenzione collettiva: “E’ arrivato il nuovo server!”. Ma era solo il nuovo impianto per il condizionamento dell’aria. Per la delusione di tutti, il server era piccolissimo, sembrava un computer come gli altri. Aleggia su di noi il fantasma di una macchina -Mainframe, ‘cervello elettronico’- che manifesta la sua potenza anche attraverso le dimensioni.

Presto è diventato evidente il grande cambiamento legato al World Wide Web. Credo fosse il ’97 quando ho partecipato alla realizzazione del primo sito dedicato da una grande azienda dolciaria italiana ad un proprio prodotto. Si dovette lavorare in fretta e furia, perché, mentre l’azienda era restia ad aprire i siti, appassionati cultori del quel prodotto non ci pensavano due volte: diversi siti erano ormai stati aperti. Ed i tentativi portati avanti dall’impresa di adire a vie legali si rivelavano, di fronte al cambiamento di scenario, del tutto inefficaci.
Dal 2000 i ricordi sono più precisi, perché da allora scrivo gli appuntamenti su una agenda elettronica.
In quegli anni a cavallo del secolo ho lavorato alla piattaforma di e-Learning di un grande Istituto Bancario italiano. Ho lavorato al modello dei dati relativi ai clienti di una importante Compagnia di Assicurazioni.
Presso una Business School, ho aperto e guidato l’area disciplinare Information Technology: di solito tematica esclusa, con gravi conseguenze, dalla formazione dei manager. Contestualmente ho progettato e diretto master -i primi in Italia- dedicati all’e-Business e al CRM.
E così ho continuato fino ad oggi. Ricordo con piacere sopratutto due esperienze, una delle quali ancora in corso.
A stretto contatto con l’Amministratore Delegato, ho lavorato al complessivo processo di cambiamento organizzativo e tecnologico della società di Servizi Informatici di una importante Associazione di Categoria. La società offre un ampio spettro di servizi, ed è leader nel campo dei cedolini paga. E’ stata consolidata la rete dei server. Una buona parte del software è stato riscritto. Si è implementato un nuovo strato di software destinato all’erogazione del servizio. Si è lavorato allo sviluppo delle competenze e alla ridefinizioni dei ruoli.
Dal 2007 al 2017 ho lavorato come consulente del Chief Information Officer di una grande impresa italiana quotata in Borsa. Vari progetti. Ma soprattutto un percorso, al quale spero di aver contribuito: il transito dal considerare l’area I&CT come un centro di costo votato al sostegno del business al considerarsi portatori di una missione: portare in azienda la cultura digitale, proponendo così, all’interno, nuovi spazi per il lavoro collaborativo, e aprendo al contempo il campo, all’esterno, per nuove relazioni con partner e clienti.
Dal 2005 lavoro come formatore e consulente a ciò che si chiama comunemente Digital Transformation. E’ traccia di questo mio lavoro il capitolo che appare in un libro collettivo: “Human being in the digital world: lessons from the past for future CIOs”, in Giorgio Bongiorno, Daniele Rizzo, Giovanni Vaia (Eds.), CIOs and the Digital Transformation. A New Leadership Role, Springer, 2017.
Queste esperienze mi hanno insegnato che dietro il lessico anglicizzante dell’informatica si nascondono non di rado mode e sguardi settoriali – di cui finiscono per essere vittima gli stessi professionisti del settore. Ciò che dieci anni fa si chiamava ASP adesso si chiama Cloud. Chi è esperto di SAP in molti casi sa ben poco di reti client/server – e in ogni caso gli mancano motivi per riflettere sulla storia culturale di SAP. Ci si accoda volentieri senza troppo riflettere all’ultima novità: le App, i Big Data…
Le sigle e le espressioni tecniche abbondano e si rincorrono e si stratificano. Oggi, nel momento in cui scrivo, le Cose Più Moderne si riassumono in un acronimo. SMAC: Social, Mobile, Analytics, Cloud. Facile prevedere che questo acronimo già domani sarà vecchio.
Così anche interessanti discontinuità, come il Data Mining e l’Agile Software Development, rischiano di rovesciarsi nel loro opposto: approcci fondati su prototipi e su affinamenti progressivi, sul tentare e sull’accettare l’errore, finiscono per tradursi in metodologie che qualcuno pretende poi di imporre come regole definitive. Si cercano prescrizioni anche lì dove non può esserci che congettura ed invenzione.