Raccontare al marziano ciò che non si sa di sapere


Questo testo è un estratto dall’Introduzione di Macchine per pensare, Guerini e Associati, in libreria nel gennaio 2016; primo volume del Trattato in Informatica Umanistica.

Avrò avuto cinque o sei anni -sarà stato dunque il 1955 o giù di lì-

 

Francesco a sei anni

 

quando mi arrovellavo attorno a due domande filosofiche, tra di loro connesse. Di una, superando la reticenza che ancora mi spinge a tenere per me certi pensieri, parlai a mia mamma, che mi rimandò al parroco.
Posso formulare così la prima domanda: come possono i bambini che nascono in un luogo dove si professa una diversa religione essere considerati per questo in peccato? Il parroco mi rispose con una argomentazione scolastica e cavillosa che mi lasciò insoddisfatto. Quei bambini vivono certamente nel peccato; ma essendo l’ignoranza della vera fede non imputabile a una loro scelta, possiamo considerarli non colpevoli.
Stimavo il parroco, anche per questo rimasi deluso. Frequentavo il catechismo e quella risposta avrei potuto darmela da solo. Non mi aspettavo da lui una esplicita apertura al relativismo, ma -credo- cercavo conferma di un atteggiamento epistemologico che ancora oggi mi guida.
Le parole per dire le cose in modo forbito –relativismo, epistemologia– si imparano quando si è più grandi, si imparano e si dimenticano e in fondo non contano; ma sono sicuro di ricordare bene, già allora pensavo così: il mondo può essere guardato da diversi punti di vista, con sguardi diversi. La ‘chiave di lettura’ non viene mai prima, non sta scritta in nessun catechismo, ma sta dentro quel punto di vista, è implicita in quello sguardo.
Forse anche scottato da questa esperienza, della seconda domanda non ho parlato mai a nessuno, fino a pochi giorni fa. Mi è tornata in mente, non a caso, adesso, mentre sto ragionando attorno al conoscere, al costruire conoscenza – e al come, in questo processo, può aiutarci quella macchina che chiamiamo ‘Personal Computer connesso alla Rete’.
La domanda si situa in un contesto preciso: se fossi l’unico uomo con il quale i marziani fossero riusciti a entrare in contatto, l’unico uomo che i marziani avessero portato con sé, lontano da qui, loro avrebbero cercato di conoscere il nostro mondo attraverso di me.
Ero ben consapevole di essere un bambino, consapevole di sapere poche cose. Ma stranamente ero sicuro che sarei riuscito a far capire a una commissione di saggi marziani, intenti ad interrogarmi, chi siamo noi uomini, abitatori della Terra, e come funziona il nostro mondo.
La domanda che mi ponevo, dunque, era questa: perché ero convinto che sarei stato capace di rispondere, capace di far fronte all’aspettativa?
Sgombro il campo da una spiegazione pragmatica: siccome sono l’unica persona disponibile, e siccome la loro ignoranza è totale, non posso non essere utile: quel poco che saprò dire avrà comunque un enorme valore. Non pensavo questo. Pensavo che sarei riuscito a fare quello che serviva: dare risposte adeguate.
Confusamente allora, da bambino, mi davo, e più lucidamente adesso, da adulto, mi dò, questa spiegazione. Si risponde alle domande dei marziani non tentando di offrire, o illudendosi di offrire, una immagine esaustiva del mondo, del sapere universale. Questa onniscenza è certo inattingibile per un bambino, mi dicevo allora. Ma oggi posso aggiungere che la speranza di attingere al tutto è sempre fallace, per qualsiasi adulto.
Se mai fosse possibile attingere al tutto, il tutto che mi era visibile allora, bambino, e il tutto che mi è visibile ora, sarebbe in ogni caso solo il tutto che si manifesta in questo istante. Mentre la conoscenza è un processo senza fine, che rende ogni libro obsoleto nel nel momento in cui è stampato.
Vano è anche esplicitare all’altro del-tutto-ignorante-diverso-da-me la mia chiave di lettura: può darsi che io non sia in grado di descrivere la chiave di lettura che pure so usare. E in ogni caso non posso sperare che quella chiave, adatta a me, possa essere usata dall’altro del-tutto-ignorante-diverso-da-me.
Si tratta, invece -collocandosi in una dimensione dove la conoscenza si manifesta sotto forma di narrazione, anzi, è narrazione-, si tratta di raccontare quello che si sa. Non trascurando nulla, sempre pensando che quello che io so ha valore – anche se non so, non posso sapere di preciso dove sta il valore implicito nel mio racconto. Si tratta di mantenere viva la convinzione: quello che sto narrando è una approssimazione efficace alla conoscenza del mondo. Sempre credendoci. Perché se non ci credo sono io a togliere valore alla narrazione. Finisco per questa via per abbassare il tono, elidere dettagli, articolazioni del discorso.
Se narrerò così, fiducioso, quello che so, anche certo mischiando, senza rendermi conto dei confini, nozioni apprese con interpretazioni frutto della mia mente, castronerie (le parole colte che si apprendono dopo: beliefs, credenze) e acute riflessioni, se risponderò a tutte le domande, anche quelle che alla luce della ragione mi appaiono troppo difficili, emergerà dal mio narrare un testo che l’altro del-tutto-ignorante-diverso-da-me potrà leggere a suo modo, cogliendo nessi e articolazione e galassie di senso.
L’altro del-tutto-ignorante-diverso-da-me potrà così capire, accedere ad una conoscenza del mondo, dal suo punto di vista – un punto di vista che è inutile tentare di comprendere. Potrà costruire così una sua mappa, una mappa che lui sarà capace di leggere, una mappa che inizialmente sarà -per lui- ricca sopratutto di lacune, hic sunt leones. Una mappa che via via la mia narrazione si snoderà, apparirà all’altro del tutto-ignorante-diverso-da-me, momento dopo momento, meno imprecisa, più pertinente.
Credo che per me allora esistesse un nesso tra l’altro del-tutto-ignorante-diverso-da-me, e me stesso. Accettare l’altro è accettare se stessi. Accettare l’altrui ignoranza è accettare la propria. Era ovviamente lacunosa la mia mappa di allora, di bambino, come lo è ovviamente anche quella di oggi, di me adulto.