Anonimi cantori


Verso la metà degli anni settanta lavoravo come antropologo nella provincia di Esmeraldas, in Ecuador. Ho vissuto per lunghi mesi nei villaggi abitati da afroamericani, lungo il fiume Onzole. Non c’erano strade, si viaggiava in canoa risalendo lentamente il fiume. Solo pochi fortunati possedevano un motore fuoribordo. Alle sei e mezzo di sera è buio. Non giungevano certo in quei villaggi le linee elettriche. Ma c’era un negozio in ogni villaggio. Il negoziante comprava dai compaesani il cacao che producevano, e vendeva loro alcuni generi di prima necessità. Il negozio, che era anche osteria, era dotato di un generatore elettrico. La sera, pur straniero, andavo anch’io all’osteria. Ogni tanto arrivava in quel villaggio il cantastorie. Ma anche gli anziani del villaggio erano abili e compiaciuti narratori.
Con mio stupore, mi accorgevo che le storie raccontate erano le stesse che avevo letto nei romanzi latinoamericani che in quegli anni erano di moda in Europa. Ragazze vergini che salivano in cielo, angioletti neri che dal cielo proteggevano le famiglie, guerre infinite e fratricide, galeoni spagnoli immersi nella foresta, ponti sui fiumi costruiti dal diavolo.
Mi resi conto che non erano certo i cantastorie a riprendere i temi dei romanzi. Al contrario: il romanziere si era appropriato dei temi tradizionali narrati oralmente da anonimi cantori.

Francesco Varanini