Una intervista sugli argomenti delle ‘Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale’


Su L’Eurispes.it, ‘il prima magazine di un istituto di ricerca, è apparsa una intervista. Si trova qui.

Distinguere, giudicare, scegliere: come “rimanere umani tramite la tecnica”
di Massimiliano Cannata – 9 Ottobre 2020

Cinque leggi (non siamo inforg, non siamo robot, non siamo algoritmi, non siamo macchine, siamo esseri umani) da osservare ma anche da trasgredire per comprendere, per usare una celebre immagine di Emanuele Severino: La tendenza fondamentale del nostro tempo. Francesco Varanini etnografo, critico letterario, esperto di innovazione, coniuga l’esperienza del ricercatore sociale con un’importante conoscenza del mondo aziendale. Il suo originale eclettismo emerge molto bene nel bel saggio: Le cinque leggi bronzee dell’era digitale (ed. Guerini e associati).

Professore, come si legge molto bene nel suo scritto, la civiltà delle macchine apre un nuovo orizzonte. Quali sono i rischi e le opportunità?

Credo non basti parlare di civiltà delle macchine. Il cambiamento significativo, non sta tra una precedente civiltà e la civiltà delle macchine. La discontinuità rilevante è interna alla civiltà delle macchine. Il tempo, che possiamo definire tempo della civiltà delle macchine, grosso modo dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Industriale in poi, mostra un passaggio chiave. Possiamo far data al primo articolo di Alan Turing, 1936, dove viene descritto per la prima volta il computer; o possiamo far data alla metà del secolo scorso, quando si afferma il concetto di automazione in àmbito industriale, anni in cui Turing scrive a proposito delle macchine che pensano.

Prima di allora cosa succedeva?

C’erano macchine che accompagnavano l’uomo nel lavoro, ne alleviavano la fatica – non esistevano però strumenti progettati e costruiti con il proposito di sostituire in toto l’uomo nel lavoro. Oggi, si accettano come cose normali previsioni nelle quali si afferma che entro cinquant’anni ogni lavoro umano potrà essere sostituito dal lavoro di una macchina. Non importa se la previsione è sbagliata: può darsi che i tempi siano più lunghi. Ciò che è importante è che l’affermazione sia tecnicamente fondata.

Tornando al bilanciamento tra rischi e opportunità, che cosa dobbiamo aspettarci?

Che gli esseri umani siano privati della possibilità di lavorare, con il rischio che ci venga sottratta la nostra stessa identità, che nel lavoro trova una sua esplicazione e realizzazione. L’opportunità consiste nel fatto che la nuova situazione è una sfida, che dobbiamo affrontare. Ci troviamo a convivere con macchine sempre più autonome, che impongono di riflettere su noi stessi, su chi veramente siamo.

Goethe e Leopardi ci spiegano la sostenibilità

Goethe e Leopardi. Perché ha scelto riferimenti così importanti per parlare di robotica e machine learning?

Sono grandi poeti e pensatori, seppero cogliere con grande acume le novità del tempo in cui vissero. Vivevano al tempo dell’Illuminismo e della Rivoluzione Industriale. Dobbiamo chiederci se noi sappiamo leggere il nostro tempo così bene come loro seppero leggere il loro. La forza incontrastabile di leggi superiori è l’alibi che forniamo a noi stessi per non assumerci nessuna responsabilità. Eppure – ci ricorda Goethe – le leggi sono ammonimenti che ci spingono ad essere con forza e convinzione e piena consapevolezza coloro che possiamo essere. Di fronte a macchine, intelligenze artificiali, siamo così spinti ad essere più pienamente umani.

E Leopardi, per quale ragione viene chiamato in causa?

Basta ricordare un’immagine. Scrive: «Le macchine al cielo emulatrici / crebbero, e tanto cresceranno al tempo / che seguirà». Difficile dare una definizione migliore riguardo a strumenti sempre più potenti ed autonomi rispetto a noi umani. Questi grandi scrittori ci ricordano che il progresso non ci condurrà da nessuna parte se dimentichiamo la storia, se rinunciamo alla saggezza. Potremmo addirittura intravedere in queste affermazioni, un’anticipazione ovviamente ante litteram del termine “sostenibilità”.

Le leggi bronzee dell’era digitale enunciate nel suo scritto, fanno venire in mente il contrasto evocato da un recente lavoro di Vittorino Andreoli che parla della strana condizione dell’homo stupidus stupidus nella società dell’informazione. È un parallelismo corretto?

Istupidito più che stupido, direi. Le cinque leggi che descrivo mettono a fuoco cinque modi, cinque vie tramite le quali noi umani ci siamo appunto “istupiditi”. Siamo cittadini dotati di diritti, ma nell’era digitale finiamo per essere sudditi di sovrani che decidono per noi. Prendiamo il caso di Zuckerberg che, al pari di un sovrano assoluto, decide le leggi che vigono in Facebook, che tutti siamo costretti a subire. Le leggi di cui parlo sanciscono di fatto la privazione della libertà. Il conoscerle, appunto, apre la strada al trasgredirle. Sta poi ai cittadini saper usare gli strumenti digitali come strumenti di libertà.

Siamo ancora in tempo per fissare un limite entro cui le macchine intelligenti devono di fatto muoversi?

È vano cercare di mettere un limite, così come è difficile mettere un freno ai tecnici e ai progettisti che operano nel settore. E se poi mai (anche se credo che non ci convenga spingerci sul terreno di questa ipotesi) le macchine svilupperanno una propria intelligenza, e quindi una determinata autonomia rispetto agli umani, saranno in grado di andare oltre qualsiasi limite imposto loro. Questo comunque non deve preoccuparci perché la presenza di macchine sempre più potenti e autonome, e magari intelligenti, è lo stimolo che ci spingerà a sviluppare le nostre capacità, a riscoprire la nostra saggezza. Paradossalmente, più potenti sono gli strumenti a nostra disposizione, maggiore è la spinta ad esprimere la nostra umanità.

Esiste un limite della ricerca?

“Distinguere, giudicare, scegliere”: il titolo di uno dei capitoli. Non sono verbi entrati in disuso per essere sostituiti dalla cosiddetta trinity della blue economy: velocità, immaterialità, interconnessione?

Distinguere, giudicare, scegliere è, non a caso, il titolo conclusivo del saggio. Il messaggio è molto chiaro: proviamo a trasgredire le leggi alle quali, nel tempo in cui viviamo, dobbiamo sottostare. Velocità, immaterialità, interconnessione costituiscono uno stile di vita che ci viene imposto, leggi che ci vengono imposte: il che vuol dire fare qualsiasi cosa alla massima velocità, essere sempre connessi alla Rete… Si tratta di aspetti positivi a patto di saperli vivere con saggezza, con moderazione, con spirito critico. Tornare a leggere letteratura, a godere dell’arte, della musica, potrà aiutarci in questo che è un percorso di recupero di una dimensione umana che stavamo, proprio disorientati dalla frenesia, perdendo per strada.

Le due culture, analogica e digitale, appaiono oggi in conflitto. Esiste la possibilità che possano convivere?

Non credo esista una radicale discontinuità tra cultura analogica e cultura digitale. Nel mio saggio cerco di far vedere come ciò che chiamiamo cultura digitale nasce con l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale. Attenzione: parlare di Disruption, di rottura, di discontinuità, nasconde un messaggio politico pericoloso; è come se qualcuno ci dicesse: dimentica chi sei, considera superati i tuoi valori, la tua storia, affidati ai nuovi guru, ai tecnici, ai profeti dell’innovazione acritica. È proprio ciò che non dobbiamo fare. Tutti i cittadini sono oggi più che mai chiamati a distinguere, giudicare, scegliere in prima persona.

“Essere umani tramite la tecnica”, Lei scrive molto opportunamente. Siamo preparati per accogliere questo decisivo messaggio?

Purtroppo no. Ma possiamo prepararci. Voglio dare un messaggio di speranza, di fiducia. Fiducia in noi stessi. C’è però un passaggio chiave che va sottolineato: la tecnica non è in mano ai cittadini. È in mano ai tecnici. L’esempio più semplice e chiaro penso sia questo. Le macchine digitali funzionano in base a un codice, un programma. Chi è in grado di scrivere questo codice? Chi sa cosa c’è scritto nel codice che fa funzionare le macchine? Solo i tecnici, non certo i cittadini. È proprio questa impossibilità di leggere il codice che può trasformare i cittadini in sudditi, che potremmo definire con una parola più adatta: utente. Per ritrovare un giusto equilibrio, la tecnica non deve chiudersi in una torre d’avorio ostentando superiorità, nel contempo il comune cittadino deve aprirsi all’innovazione, non sacrificando nulla della sfera di quei diritti conquistati al prezzo di tante lotte e rivendicazioni.

Epidemia e pandemia per nulla sinonimi

In questo momento, certamente difficile per la storia dell’umanità, quale deve essere il compito dell’impresa (si pensa di solito solo allo stato e ai soggetti pubblici) perché si possa riavviare un futuro di crescita uscendo dal buio della notte di questa terribile pandemia?

Le parole hanno un peso e un senso al quale non sempre poniamo attenzione. Ci sono due termini, che in questi giorni penosi e terribili abbiamo usato considerandoli come sinonimi: epidemia e pandemia. In realtà queste parole raccontano storie ben diverse. Epidemia è un’antica parola greca che parla di qualcuno o qualcosa venuto tra noi. Ospite desiderato o indesiderato. La parola nel suo significato originario non parla di malattia o di pericolo. Parla della necessaria attenzione che dobbiamo tributare rispetto a qualcuno o qualcosa che arriva nel nostro paese, nella nostra città, nella nostra casa. Pandemia è invece una parola che ha una radice tecno-scientifica, coniata dai medici verso la metà dell’Ottocento. La caratteristica distintiva della pandemia è il suo essere dichiarata da un’autorità. La pandemia esiste quando un’autorità ne afferma la presenza. Il cittadino di conseguenza finisce con l’assumere un atteggiamento dipendente: attende regole, cure, protezione. Tutto ciò ha un valore, a patto di non tralasciare la radice etimologica dell’altro lemma: epidemia, che invita a un atteggiamento responsabile ogni singola persona. Guardando al mondo dell’impresa per rispondere alla sua sollecitazione, si potrebbe dire che quello che serve è una crescente responsabilità sociale. In parallelo, anche ogni singolo soggetto dell’organizzazione deve maturare un atteggiamento coerente alle sfide che una società complessa pone ad ogni cittadino. Siamo, infatti, sulla stessa barca, nessuno può chiamarsi fuori, questo il messaggio di fondo su cui vorrei confrontarmi con i lettori.