L’ultimo García Márquez, o letteratura d’evasione


Ho scritto questo testo nel 2002, a commento di Vivir para contarla (Mondadori España, 2002; trad. it. Vivere per raccontarla, Mondadori, 2002). Purtroppo è del tutto attuale. García Márquez non si smentisce e peggiora di opera in opera. La mia critica a García Márquez, nel Viaggio letterario in America Latina, è dettata dalla delusione – García Márquez non ha mantenuto le promesse, è diventato presto ostaggio del mercato editoriale.

Ho letto Cent’anni di solitudine, per consiglio di un amico all’inizio degli anni settanta – allora si doveva leggere solo saggistica politica, ideologica, il romanzo era una trasgressione. Facevo il militare, ufficiale di complemento negli alpini, Alto Adige. Mi ricordo a leggere disteso per terra su un meraviglioso prato, d’estate, tra i meli carichi di frutti maturi, rossi.
Ma nella memoria mi è rimasto il testo in spagnolo, avevo comprato il libro appena arrivato a Quito, nel 1974. Ho ancora quella copia con la copertina di Vicente Rojo, ghirigori celesti, su un semplice fondo bianco, una ‘e’ del titolo rovesciata.
Critico García Márquez perché l’ho amato, perché Cent’anni di solitudine e l’Autunno del patriarca sono libri indimenticabili. Ho amato Márquez e Márquez mi ha deluso.
Preceduto dalla solita pletora di recensioni previe, ecco il nuovo libro.
Il tam tam era iniziato almeno un anno prima. Inviati si erano per tempo recati a Bogotà per interrogare “amici e familiari”. Poi il libro esce e quello stesso giorno, o qualche giorno prima, per la critica, unanime, Gabriel García Márquez, “maestro absoluto”, “è tornato ad offrire un’altra espressione memorabile delle sue eccezionali doti di affabulatore”. Esaltano i recensori “la suprema obiettività del grande scrittore”, “la potenza con la quale si narrano i momenti più sinistri”, che “non arriva ad occultare il lirismo delicato, commovente”. Per loro non solo “lo stile dell’autore fiammeggia splendente, segnato come sempre da una poetica radicale” ma anzi, l’opera si segnala per la “visibile ricerca della sobrietà”.
La rassegna di opinioni qui brevemente riassunta è del tutto corrispondente all’accoglienza riservata a Vivere per raccontarla. Eppure è falsa. Invece di rifarci a pagine uscite nell’ultimo mese, abbiamo riportato citazioni, del tutto identiche, riservate nel 1994 al romanzo Del amor y otros demonios. (Gabriel García Márquez, Del amor y otros demonios, Barcelona, Mondadori, 1994. Ed. it.: Dell’amore e di altri demoni, trad. di Angelo Morino, Milano, Mondadori, 1994. Per non fare torto a nessun recensore italiano, la fonte è spagnola: Miguel García-Posada, “Amor y posesiones. La nueva y magistral novela de García Márquez”, El País, Madrid, 23 aprile 1994).
Un autore settantenne a corto di ispirazione si mette a scrivere una torrenziale autobiografia. Esce il primo volume che copre i primi trenta anni di vita. Sono novecento pagine, ridotte per fortuna da un pietoso ma insufficiente lavoro di editing a poco più di cinquecento. A sostegno del libro, prima della sua uscita, esce un mare di recensioni. Tutto normale.
Ma resta la domanda. Perché i libri di García Márquez sono -come si legge invariabilmente ad ogni nuova uscita, con una formula che è stucchevole citazione di un titolo dello stesso autore- ‘successi annunciati’. Perché questa unanime apologetica accoglienza- del tutto ingiustificata se si guarda alla qualità dell’opera. E come può essere che questo autore sia giudicato il più alto della seconda metà del ventesimo secolo.
Alla domanda rispondiamo in questo modo: tutta colpa, o merito, dell’establishment editoriale. Il pubblico, i lettori, sono innocenti, o succubi di un gioco giocato a loro danno.
Innanzitutto, García Márquez piace al ‘recensore normale’. García Márquez non pone problemi, non comporta rischi. Con lui non si hanno sorprese. Si è certi di poter fare un ricco pezzo, non smascherabile, anche senza aver perso tempo a leggere le pletoriche pagine di ogni nuovo libro.
Perché da troppi anni i libri di García Márquez sono tutti uguali. Per le sue opere vale l’opinione con la quale, secondo Borges, il critico Paul Groussac accoglieva le nuove edizioni del Diccionario de la Real Academia: ognuna fa rimpiangere le precedenti. Nella memoria del lettore i libri, mere ripetizioni l’uno dell’altro, si confondono. Ogni opera apparendo citazione, o rimasticatura della precedente. Perciò la recensione non pone problemi. Si sa cosa scrivere.
Chiunque sa imbastire quattro frasi parlando del mondo magico e meraviglioso di Macondo, che sulle carte geografiche è Aracataca. E fa sempre piacere al recensore ricordare la facile storia del figlio del telegrafista che apprende a narrare ascoltando le storie raccontate dalla nonna. Lo scrittore che è un inveterato sognatore ma che è anche impegnato politicamente. Da lì è facile il passaggi all’America Latina, il Tropico, i Cairaibi, i ritmi del bolero e della salsa, sole a picco e tramonti dagli incredibili colori, treni dalle piccole carrozze rosse che si immergono nel verde, bus colorati. (Per questa via, ci può scappare anche l’ennesimo reportage, l’ennesimo viaggio di un giornalista a Cartagena, e lungo il rio Magdalena).
Oltretutto, il recensore si sentirà gratificato, rendendosi contro di essere in grado di maneggiare lo stesso stile del celebrato autore di cui presenta l’opera. Perché lo stile è codificato, ben identificato, ma facilmente imitabile.
Ciò che scrive García Márquez è indistinguibile da ciò che scrivono i suoi recensori, ciò che scrive un recensore è indistinguibile da ciò che scrive ogni altro recensore. Leggete questa frase: Vivir para contarla “è una lotta con l’acido della nostalgia e con l’ossido del tempo, per restituire in otto capitoli magistrali una peripezia affascinante”. Non vi dico chi ha scritto la frase, perché è inutile. E’ evidente che avrebbe potuto scriverla lo stesso García Márquez, che da decenni incensa e imita se stesso. Ma avrebbe potuto scriverla anche qualsiasi eccelso critico, e anche qualsiasi giornalista. Scrivere come un Premio Nobel, come il miglior autore contemporaneo, che soddisfazione! E via dunque con le recensioni.
Ma naturalmente, l’incredibile successo di García Márquez non nasce solo dal piacere del recensore. C’è di più.
Per l’industria editoriale globale intesa nel suo complesso, García Márquez è, e si conferma con maggior fulgore ad ogni nuova stagione, l’autore ideale.
Perché nessuno come García Márquez offre la merce letteraria più facile da vendere: letteratura d’evasione. Tratta di temi esotici, di un mondo lontano (non importa se inesistente) nel quale è bello immaginare di poter fuggire. Un mondo che sostiene e rinforza il mercato del viaggio organizzato: villaggi vacanza, facile turismo. Ma García Márquez offre anche, ed in questo non ha concorrenti, anche l’evasione politica. Solo lui porta con sé l’immaginario di una stagione politica di facili utopie rivoluzionarie, rimanda all’icona del Che Guevara, solo lui propone oggi una lettura decente della figura di Fidel Castro.
E ancora. García Márquez è l’autore ideale perché dietro ogni libro è sempre ben presente il personaggio. Un personaggio particolarmente facile da vendere. Ostenta le sue idee di sinistra, e un machismo tutto latinoamericano, ma si sa che non c’è motivo di temerlo. Le sue contraddizioni fanno di lui una pedina manovrabile. Se ne era venuto in Europa negli anni cinquanta solo perché alcune cronache giornalistiche l’avevano reso inviso alla dittatura di Rojas Pinilla. Negli anni sessanta lascia New York, dove era per conto dell’agenzia castrista Prensa Latina, quando ancora sembra che lo sbarco alla Baia dei Porci sia un successo. Annuncia solennemente che non scriverà più un romanzo fino alla caduta di Pinochet, ma poi cambia idea e pubblica L’amore ai tempi del colera. Negli anni ottanta lascia precipitosamente la Colombia perché teme di essere interrogato dalla polizia che indaga sul gruppo guerrigliero M-19. E quando ormai è un mostro sacro minaccia ancora a più riprese di lasciare il proprio paese a causa di attacchi alla libertà di pensiero, che sono invece al massimo attacchi all’entità dei suo diritti d’autore.
Nessuno è come lui. Solo García Márquez si scaglia contro il Premio Nobel, bollandolo come
“alloro senile”, e però l’anno dopo, avendolo vinto lui, senza pudore va a ritirarlo.
Fa comodo a tutti questo autore che produce merce così facile, merce più piacevole da leggere di quella prodotta da una Allende o di un Baricco. E’ il Maradona della letteratura; come Maradona virtuoso, dotato di una maestria ingenua, di una innata abilità di giocoliere del linguaggio – ma uomo debole, ricattabile. Fa comodo a tutti questa voce standard del Terzo Mondo latinoamericano. Fa comodo il personaggio non all’altezza del nostro stile e della nostra raffinatezza. Mentre lo incensiamo, in fondo ridiamo di lui. E facendolo ricco lo sfruttiamo, costringendolo in un ruolo, arricchendoci alle sue spalle.
Eppure dovremmo avere più rispetto di questo autore. Cent’anni di solitudine e l’Autunno del Patriarca restano capolavori. Ma i capolavori si salvano se si evita l’ipocrita, generalizzata apologia. Se si separa l’opera dalle mollezze e dalla decadenza del personaggio-autore. Invece, all’industria editoriale serve pompare il personaggio, valorizzare qualsiasi sua opera. Perciò si persegue l’operazione di livellare tutto in basso. Acciocché nuovi libri siano venduti, l’imitazione del capolavoro, scritta alla maniera di Márquez dallo stesso Márquez, deve apparire agli occhi del lettore indistinguibile dai testi di Márquez veramente dotati di valore.
C’è in aggiunta, naturalmente, un ulteriore effetto nefasto. L’enorme spazio attribuito a García Márquez offusca l’immagine dell’intera letteratura ispanoamericana. Autori di straordinario rilievo -Lezama Lima, Rulfo, Onetti, ma è penoso doversi limitare a citare solo qualche nome- sono pressoché dimenticati. Giovani autori interessanti sono del tutto ignorati. Mentre godono di una qualche luce riflessa, e quindi di un immeritato credito, gli autori che nella loro pochezza si avvicinano allo stereotipo marqueziano. E’ il caso di Luis Sepúlveda.