Customer in cerca di leisure. Recensione di Diego Marani a ‘Le parole del manager’


Riporto qui la recensione apparsa sul Sole 24 ore, supplemento domenicale, il 4 giugno 2006. (L’articolo si trova qui)

Il dizionario Le parole del manager di Francesco Varanini racconta con leggerezza e al tempo stesso con profondità una materia apparentemente arida come quella del lessico manageriale. In duecentoventotto pagine l’autore riesce ad appassionare scavando nei significati per svelare dietro le etimologie la storia che ha plasmato assieme alle parole la società che le usa. Di particolare interesse sono proprio quelle straniere, che più ci intimoriscono e che spesso sentiamo come un sopruso nella nostra lingua. Varanini ci dimostra invece che se oggi c’è bisogno di customer è perché cliente non ha lo stesso significato. Il cliente è in fin dei conti sempre un plebeo che si mette sotto la protezione di un patrizio e accetta di restare in una posizione subordinata. Il customer è invece chi sceglie liberamente e senza dipendenza a chi rivolgersi.
Il ragionamento che spiega l’origine della parola auditing è una piccola rivelazione che mostra come in fin dei conti la civiltà del verba volant, scripta manent non si sia mai veramente radicata. Ancora oggi è la parola detta che pesa di più e a chi fa i conti non basta leggerla sulla carta un tempo effimera come le immagini dei nostri schermi. Perché non sussista alcun dubbio c’è bisogno di sentirseli dire i numeri che svelano gli arcani del budget. Era al Cancelliere dello Scacchiere in Inghilterra che spettava to open his budget, cioè il sacco, la borsa di cuoio. Per estensione, «profondo e oscuro luogo di disordine». Le conosciamo le borsette delle nostre mogli. E ha ragione Varanini quando dice che «nessuna immagine descrive meglio il processo caotico che porta all’elaborazione di ogni budget» e che trova il suo laborioso culmine nel parto della legge finanziaria. Non sorprenderà scoprire che dalla stessa radice viene la bolgia dantesca.
Anche il così oscuro know-how trova in queste pagine la sua ragion d’essere. L’autore spiega che tutto viene da knowledge, all’inizio nel significato di confessione e poi anche di conoscenza che non si divulga. Perché in fondo è tutta lì la forza della conoscenza: tenersela. L’epistemologia è il primo passaggio dal sapere al saper fare, ma resta nel campo della filosofia. Il know-how è altro ancora, scende sul terreno delle arti e dei mestieri e in fin dei conti nella radice dell’indoeuropeo gnarus si congiunge a (g)narrare, che è dire, raccontare, perché il sapere è in fondo questo: saperlo raccontare. Credevamo che fosse uno snobismo parlare di leisure anziché di tempo libero. Invece nelle pagine di Varanini scopriamo che il tempo libero è solo tempo vuoto, mentre leisure ha la stessa radice di licenza, cioè di permesso. Nel tempo dedicato al leisure ci è permesso fare qualcosa, ma superarne il limite diventa troppo, diventa licenzioso.
Chiude il volume forse la definizione più profonda, quella del tedesco zeit, che s’apparenta sì all’inglese time, ma ancor più al tide della marea, nel significato di momento propizio, epoca o porzione di tempo. Il tempo tedesco e inglese non ha come da noi una correlazione col tempo atmosferico: è solo scansione di attimi. Per il tempo atmosferico in inglese c’è weather, che ha la stessa radice di ventus. Una differenza che facevano anche i latini quando parlavano di tempestate. Che i popoli neolatini abbiano poi confuso i due concetti nella parola tempus e nei suoi derivati è in sé già una visione del mondo, una fuga dalla razionalità e l’accettazione dell’imprevedibilità delle cose. Se oggi è lo zeit anglogermanico che vince, acquisirne la consapevolezza linguistica è già un pareggio.
Francesco Varanini, Le parole del manager. 108 voci per capire l’impresa, Edizioni Guerini e associati, Milano 2006, pagg. 238, € 9,50.