L’anomala carriera di un manager italiano del futuro. Come (forse) saremo tra 50 anni. Articolo di Francesco Varanini. ‘Sviluppo & Organizzazione’, luglio-agosto 2021, n. 300.


La rivista Sviluppo & Organizzazione , edita da ESTE, è dalla sua fondazione, nel 1971, un punto di riferimento per manager e studiosi di organizzazione e management. Dunque nel 2021 si celebrano i cinquant’anni – anche con un cofanetto che raccoglie una selezione di articoli usciti in questo mezzo secolo. La memoria del passato serve per proiettarsi nel futuro, quindi nel numero 300, luglio-agosto, si immagina il numero 600, che giungerà nelle mani dei lettori nel settembre 2071.

Appare dunque sul numero 300 di Sviluppo & Organizzazione il mio articolo “L’anomala carriera di un manager italiano del futuro. Come (forse) saremo tra cinquant’anni”.

Qui l’articolo in formato pdf. Potete comunque leggerlo anche qui di seguito, corredato da una fotografia che non appare sulla rivista.

L’anomala carriera di un manager italiano del futuro
Come (forse) saremo tra cinquant’anni
di Francesco Varanini

Come ebbe poi a dichiarare, l’idea gli venne in mente durante l’intervista concessa a Chiara Lupi, in occasione del suo ottantesimo compleanno. (L’intervista appare sul numero … di Sviluppo & Organizzazione, settembre-ottobre 2064). Il libro, però, è dato alle stampe solo sette anni dopo. Questo arco di tempo è ulteriore segno del carattere di Giorgio Chiellini: mai superficiale, supplisce all’almeno apparente carenza di doti tecniche non solo con la costante applicazione, ma soprattutto con l’acuta intelligenza e con l’attitudine riflessiva.

Chiellini

Giorgio Chiellini

Essendo questi gli aspetti distintivi di Chiellini, il manager che forse più di ogni altro ha segnato la storia della cultura imprenditoriale non solo italiana dell’ultimo mezzo secolo, si è molto discusso in questi mesi a proposito del titolo della sua opera uscita in febbraio – saggio a cavallo tra la profonda riflessione autobiografica e la proposta di un’etica del management, che come si sa ha scalato le classifiche dei best seller.

Varie le opinioni espresse da studiosi di management e di organizzazione aziendale, così come da opinionisti e recensori di pagine culturali. A ciò ovviamente si aggiungono le opinioni di quadri aziendali e di lavoratori in genere, che tanto devono alle sue politiche in favore del lavoro umano; ed anche le opinioni espresse in chiacchiere da bar sport: gli antichi trascorsi sportivi di Chiellini, infatti, non sono del tutto dimenticati.

Il titolo, dunque: Because Marchionne isn’t the best of all possible managers. Perché Chiellini, campione dell’understatement, sempre lontano dalle vane polemiche, abbia sentito il bisogno di citare esplicitamente, già nel titolo, la sinistra figura alla quale ormai quasi unanimemente si attribuisce il declino di una costruttiva cultura d’impresa, non solo nel nostro paese, resta un mistero.

Ma forse Chiellini, padre saggio ormai fuori dai giochi, silente nel suo eremo elbano, ha inteso dire un’ultima parola, segnando in modo inequivocabile una differenza, ed anche ammonendo su rischi futuri. La figura del manager che agisce per il proprio personale arricchimento, e che risponde ad unico padrone, e che anzi si cerca il padrone nel portatore di interessi più debole, ignorante ed egoista, potrebbe sempre risorgere. Chiellini ci mette in guardia, e oppone a questa figura di manager non un modello astratto di onestà e di etica, ma, semplicemente, la propria personale storia di vita, ovviamente segnata da incertezze ed errori.

Non è vuota retorica notare che le pagine di Chiellini -dove poi il nome di Marchionne, in realtà, appare solo in qualche nota a piè pagina- sono un inno alla responsabilità personale del manager. E non è peregrino notare, come hanno giustamente fatto altri recensori- il filo rosso che lega la sua autobiografia ragionata ad un’opera mossa da analogo intento critico ed autocritico, e considerata come antico classico. Entrambe le opere segnano tappe chiave della storia del management.

Stiamo parlando, come è noto, Alfred P. Sloan, e dei suoi Years with General Motors. Circostanze storiche avvalorano il parallelo: a cento anni di distanza sia Sloan che Chiellini scrivono avendo già passato la meta degli ottantacinque anni. Non deve essere considerato un caso che l’autobiografia di Sloan fu considerata dal New York Times come an important book, che sarà “letto, studiato e citato per many years to come“. Ed ora lo stesso quotidiano accoglie con pressoché analoghe parole l’opera di Chiellini.

Qualcuno ha anche posto l’accento sul fatto che entrambi i libri escono presso la stessa sigla editoriale: Doubleday, New York. Veramente, non può trattarsi di un caso. Così come in generale Chiellini si rifiuta di commentare la propria opera, a maggior motivo non esprime opinioni in merito a questi dettagli editoriali. Ma certo la fama globale garantiva a Chiellini un liberissima scelta dell’editore. E l’opera appare del tutto lontana da prodotti editoriali confezionati in base a progetti nate dalla fantasia commerciale di publisher. L’opera è evidentemente tutta farina del sacco di Chiellini. E così deve esserlo anche la scelta dell’editore. Se ora Chiellini ha scelto Doubleday, esisteranno certo i motivi. E’ ben presumibile supporre che Chiellini voglia sottilmente proporre un legame tra la sua e l’opera di Sloan. E si può supporre che voglia ancor più sottilmente ricordare, anche con la scelta del nome dell’editore che campeggia in copertina, la parabola storica delle imprese che perdono di vista il proprio scopo. Si può infatti ricordare che, per un passaggio di mano generazionale, e per manie di grandezza, la casa editrice Doubleday, proprio negli anni in cui pubblicava l’opera di Sloan, perse di vista la propria vocazione. Ed oggi sopravvive come mero reperto storico, marchio di proprietà di grandi Corporation, disinteressate al business dell’editoria.

Ma le consonanze tra Sloan e Chiellini vanno ben oltre questi marginali aspetti, dei quale la critica accademica è sempre così ghiotta.

Infatti il maggior pregio di entrambe le opere è la loro distanza dall’accademia. Sono opere scritte per fortuna non da studiosi di management, ma da manager che studiano retrospettivamente se stessi, e studiandosi descrivono la propria epoca.

Possiamo così tornare, sia pure per brevi cenni, alla vicenda personale di Chiellini. Alla sua carriera. Carriera, si sa, anomala, anche per il tardivo inizio. Disse una volta lui stesso, con autoironia, ma certo anche con un fondo di sincerità, “fino a quarant’anni ho perso tempo a giocare”.

Molti commenti sono stati spesi nel tentativo di indagare sugli effetti dell’esperienza in quanto atleta sul successivo impegno in quanto manager. L’esperienza sportiva non va sottovaluta, ma nemmeno sopravvalutata. Per dire dei limiti dei valori di questa formazione, basta ricordare come ci appaia oggi non solo limitante, ma veramente fuorviante, l’epiteto che accompagnò il manager Chiellini negli anni del suo esordio: il nuovo Boniperti. La bonomia, la gestione oculata ma gretta del Boniperti, limitata del resto alla gestione di una squadra sportiva e del suo -ai tempi limitatissimo- indotto, appare una minuzia rispetto alla innovativa, grandiosa visione del business, e del senso stesso dell’impresa, di cui Chiellini è stato prima profeta e poi campione esemplare.

Chiellini, come è a tutti evidente, nasce come manager in discontinuità con la propria esperienza sportiva. Sempre, per fortuna, senza cadere nell’apologia di stesso, Chiellini ci racconta una storia che ci è così nota, tanto da apparirci scontata. Questo è forse il maggior merito di Chiellini: raccontarci una storia che ha i suoi inizi nel Ventesimo Secolo, ma che -se volgiamo lo sguardo attento al nostro non troppo lontano passato- vede il suo punto di svolta verso la metà degli Anni Venti del nostro secolo.

Si tratta, si sa, di un processo di trasformazione globale, il cui studio è come si sa oggi imposto ad ogni studente di management e di organizzazione d’impresa. Ma nessuno più di Chiellini ne è artefice esemplare. A lui infatti si deve la trasformazione di Torino in parco tematico.

Non solo i luoghi destinati ad ospitare eventi sportivi sono ormai musei. La città è spettacolo in sé; il business risiede nel vendere l’archeologia del presente, un presente che sfuma nel mito. Qualcuno, usa ancora la vecchia definizione ‘società dello spettacolo’, altri, con più ragioni, vedendo con più chiarezza la vera novità, parlano di ‘business del nulla’.

Non solo il Lingotto e Mirafiori, ma la restaurata sede dell’Iveco, l’antica sede dalle volte istoriate di Reale Mutua, la Mole Agnelliana. Ed il grattacielo San Paolo genialmente offerto agli sguardi nel suo nudo aspetto di torre sbrecciata ed arrugginita in disuso: luogo di visite a pagamento, ma anche avvertimento civile di fronte all’insensatezza dell’obsolescenza programmata, cifra distintiva, per fortuna per una breve stagione, delle opere edilizie delle archistar.

Di qui il planetario successo di Torino, città museo vivente che fa impallidire, ed apparire retrogrado, polveroso, incapace di moderna grandezza, l’industria turistica di Venezia.

E’ lo stesso Chiellini a ricordare come nei suoi primi anni da manager -succube, come tanti di noi, di un fallace spirito del tempo, dichiarava: “la mia passione? La tecnologia!”. Poi, si sa, l’ubriacatura digitale giunse al suo fine, prevalse la saggezza, e Chiellini infatti racconta come riscoprì il valore dei muri, degli immobili, degli stessi capannoni – anche se vuoti di manifattura.

Una abituale lettura storica ci ha portato a considerare punto di svolta quel tweet che Elon Musk pubblicò verso il termine degli Anni Venti: “Why get your hands dirty with manufacturing?” Articoli scientifici e divulgativi, saggi e convegni accademici, accumulano commenti su questa disruption. Ma ci appare ora evidente che avevamo bisogno del recente libro di Chiellini per cogliere il senso del passaggio. E per smascherare definitivamente l’ipocrisia di Musk.

Musk o Sir Richard Branson, difficile dimenticare la feroce polemica, finita in tribunale, tra i due imprenditori: Branson in effetti portò prove del fatto che l’affermazione era sua, e che Musk si limitò ad usarla, quando, avendo l’acqua alla gola, si trovò a dover cercare una via di fuga.

Ricordiamo cosa accadde: le sue promesse agli investitori, ribadite nel tempo nonostante l’assenza di risultati manifatturieri, un bel giorno, non furono prese più per buone neanche dalla più spericolata finanza speculativa. Musk si trovò quindi costretto ad affermare la definiva vanità e l’inutilità e vanità della manifattura. Perché mai, dunque, sporcarsi le mani a costruire automobili. Basta sostenere, con i mezzi di propaganda di massa garantiti dell’universale digitalizzazione, che non conta l’automobile costruita, costa solo l’automobile narrata. Alla manifattura su sostituisce lo storytelling. La nuova factory, di cui tanto oggi, a proposito e a sproposito, si parla, è dunque la Fict-Fac, Fiction Factory.

Chiellini ripercorre quindi dal suo punto di vista la storia, fino ad oggi gloriosa, dell’impresa emersa a valle di questo passaggio. Si parla, come è noto, di ESC, Empty Shell Company.

La scatola vuota, prima considerata come deviazione da una sana etica del business, comoda via per l’evasione o l’elusione fiscale, è ora celebrata come impresa ideale e protetta da norme vigenti in ogni paese, norme del resto tutte risalenti al Musk Act, votato, come è noto, dal Parlamento americano nel 2031. In fondo, come ricorda anche Chiellini, il senso della ESC può ancora oggi essere colto nel successivo tweet, pubblicato da Musk quando ebbe la fortuna di trovarsi al di là del guado: “se la narrazione è buona il valore di borsa del titolo sarà buono”.

Scopo di questa nota non è tentare di riassumere in poche righe il contenuto di questa importante opera. Semmai lo scopo è invitare a leggere l’opera. Quindi, ci fermiamo qui.

Non senza però aver ribadito la chiave critica proposta da Chiellini. Che può essere, in estrema sintesi, riassunta forse in quattro punti.

Il primo: esiste un sistema finanziario ormai definitivamente slegato dalla manifattura. Tornare indietro è impossibile. Accanirsi in tentativi in questa direzione non sarebbe conveniente.

Il secondo: il vuoto nel quale operano le ESC lascia spazio al pieno, al materiale, al tangibile – dove continua a risiedere valore. Anche quando il pieno è fatto da vecchi muri, magari fabbriche dismesse.

Il terzo: nelle forme d’impresa, come quelle dove operò Chiellini, dedite ad occupare in modo alternativo gli spazi lasciati vuoti dalle ESC è possibile fare business e creare valore tenendo in conto il lavoro umano.

Il quarto: è particolarmente significativo il fatto che Chiellini, esulando dai confini della stretta autobiografia, dedichi un sia pur breve capitolo alle SME, Small and Medium-sized Enterprises. Ripercorrendo con brevi ma efficaci pennellate, Chiellini ripercorre un tratto della storia dell’impresa italiana, ricordando quella stagione in cui -cinquant’anni fa- il futuro della manifattura in Italia sembrava risiedere nell’apertura nel nostro paese di Giga Factory secondo il modello di Elon Musk. Musk non molti anni dopo dichiarò impraticabile il modello, e cambiò rotta. Mentre la lenta politica economica italiana sembra ancora, molti anni dopo, in cerca di Giga Factory.

Chiellini, senza enfasi, come è nel suo stile, invita ad osservare come stia emergendo un virtuoso equilibrio che lega in unico tessuto economico e sociale SME italiane, considerate eccellenze mondiali e città ex industriali coraggiosamente trasformate in parchi tematici.

Bibliografia:

Giorgio Chiellini, Because Marchionne isn’t the best of all possible managers, Doubleday, New York, 2021.

Alfred P. Sloan, My Years with General Motors, Doubleday, New York, 1964.