Convivio. Cena di Natale Aidp 2011


L’1 dicembre sono stato invitato ad accompagnare la cena di Natale dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (Aidp), Gruppo regionale Lombardia, con qualche lettura.

Di seguito, i brevi testi che ho letto e commentato.

Specialmente interessante mi pare un testo in apparenza non letterario: la ricetta del castagnaccio di Pellegrino Artusi. Eppure quella di Artusi è vera letteratura, e anche storia culturale, etnografia senza pari dell’Italia unita.
Non sfuggirà a nessuno il senso della ricetta: noi italiani siamo troppo poco capaci di valorizzare ciò che la nostra tradizione offre. Su questo si costruisce il successo in un mercato globalizzato. Trarre vantaggio dalla differenza e dalla storia. Ma noi invece preferiamo imitare banali miti di massa, sprecando ciò che abbiamo di unico.

Sapere, sapore, saggezza
Il punto di partenza è Dante, Convivio:

Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere. (I, 1, 1)
Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo! (I, 1, 7)

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi, 5a edizione: Francesco Vallardi, Milano, 1867
rimanda al valore conoscitivo (cioè intellettuale) dell’esperienza di gustare:

Gustare, in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio, ai Latini, valeva in traslato ‘sentir rettamente’; e quindi il senso dell’italiano sapere, che da sé vale ‘dottrina retta’, e il prevalere della sapienza sopra la scienza.

Sapere e saggezza discendono dalla radice indeuropea sap-: idea di ‘succo’ -una sorta di originario nutrimento, e quindi sapore. Il verbo latino sapere ci parla quindi di ‘avere sapore’. Di qui sapius, ‘essere savio’, ‘avere senno’.
Dunque, non si può separare il corpo dalla mente. Il cibo come conoscenza: cibo della mente, in inglese food for thought.
 

Orgoglio nazionale, innovazione, competitività
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, per i tipi di Salvatore Landi Direttore dell’Arte della Stampa, Firenze, 1891

Ricetta 240. Migliaccio di farina dolce volgarmente castagnaccio
Anche qui non posso frenarmi dal declamare contro la poca inclinazione che abbiamo noi Italiani all’industria. In alcune province d’Italia non si conoscere per nulla la farina di castagne e credo che nessuno abbia mai tentato d’introdurne l’uso; eppure per popolo, e per chi non abbia paura delle ventosità, è un alimento poco costoso, sano e nutriente. Interrogai in proposito una rivendugliola in Romagna descrivendole questo migliaccio e le dimandai perché non tentava di guadagnare qualche soldo con questo commercio. -Che vuole. Mi rispose, è roba troppo dolce, non la mangerebbe nessuno. -O le cottarone che voi vendete non sono dolci? Eppure hanno dello smercio, diss’io. Provatevi, almeno, aggiunsi; da principio volgetevi ai ragazzi, datene loro qualche pezzo in regalo per vedere se cominciassero a gustarlo, e poi dietro ad essi è probabile che a poco a poco si accostino i grandi. -Ebbi un bel dire, fu lo stesso che parlare al muro.
Le cottarone, per chi non lo sa, sono mele o pere, per lo più cascaticce, cotte in forno entro una pentola nella quale si versa un goccio d’acqua, coprendone la bocca con un cencio bagnato. Veniamo ora alla semplice fattura di questo migliaccio. (…)

Creatività, progetto
Felisberto Hernández, “Explicación falsa de mis cuentos”, premessa a Las Hortesias, 1949, ora in Obras Completas, Siglo XXI, México, 1983, vol II. In italiano sta in Felisberto Hernández, Nessuno accendeva le lampade, traduzione di Umberto Bonetti, con una Nota introduttiva di Italo Calvino, Einaudi, Torino, 1974, pp. 257-258. La traduzione qui proposta è stata condotta da F.V. sull’originale spagnolo.

 
Obbligato o tradito da me stesso a dire come faccio i miei racconti, ricorrerò a spiegazioni esterne a loro. Non sono completamente naturali, perché non è che la coscienza non intervenga per nulla. Questo mi sarebbe antipatico. Ma non sono dominati da una teoria della coscienza. Questo mi sarebbe ancora più antipatico. Preferirei dire che l’intervento della coscienza è misterioso. I miei racconti non hanno strutture logiche. E nonostante la coscienza tenti di imporre una vigilanza costante e rigorosa, anche questa mi resta sconosciuta.
In un certo momento penso che in un angolo di me nascerà una pianta. Comincio a osservarla, come di soppiatto, pensando che in quell’angolo è successo qualcosa di strano, che però potrebbe non aver nessun futuro valore artistico. Ma sarei felice se questa idea non fallisse del tutto. Tuttavia, devo aspettare un tempo che ignoro: non so come far germogliare la pianta, né come favorire, né come curare la sua crescita; solamente, presento o desidero che abbia foglie di poesia; o qualcosa che si trasformi in poesia se la guardano certi occhi. Devo curare che non occupi molto spazio, che non pretenda di essere bella o intensa, ma solo che sia la pianta che è destinata ed essere, ed aiutarla ad esserlo.
Allo stesso tempo lei crescerà in consonanza con un osservatore al quale però non farà molto caso, caso mai lui volesse suggerirle troppe intenzioni o manie di grandezza.
Se è una pianta padrona di sé stessa avrà una poesia naturale, sconosciuta a lei stessa. Lei deve essere come una persona che vivrà non si sa quanto, con esigenze proprie, con un orgoglio discreto, un po’ impacciato, quasi improvvisato.
Lei stessa non conoscerà le sue leggi, che pure ci saranno, tanto profonde da non essere alla portata della coscienza. Non saprà il grado e la maniera in cui la coscienza interverrà, ma in ultima istanza imporrà la sua volontà. E insegnerà alla coscienza ad essere disinteressata.
La sola cosa sicura è che io non so come faccio i miei racconti, perché ognuno di loro ha una vita strana e propria. Ma so anche che vivono litigando con la coscienza per evitare gli estranei che lei gli raccomanda.
 

Felicità
Umberto Saba, poesia pubblicata in “La Gazzetta del Popolo” (quotidiano fondato a Torino il 16 giugno 1848; ha cessato le pubblicazioni il 31 dicembre 1983), 13 giugno 1934.

 
Felicità
La giovinezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.

Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi! Sul tardi
l’aria si affina ed i passi si fanno
leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non ancora è la felicità.

Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.