Restituzione poetica. Raccontare l’impresa: narrazione, poesia, etnografia


L’11 settembre 2002 si è tenuto a Venezia il Seminario “Raccontare le imprese. Verso un’antropologia dell’imprenditorialità e del management” (organizzato dall’Università Ca’ Foscari e dall’Istituto Triveneto di Alta Cultura Europea). Per accennare all’illusoria convinzione dell’esperto di ‘saper capire’, avendo a disposizione solo venti minuti, mi sono limitato a leggere alcune poesie, in parte comprese in T’adoriam budget divino. Critica della ragione aziendale, Sperling & Kupfer, 1994, in parte uscite poi in L’irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del Largo consumo, Guerini e Associati, 2004. (Come del resto altri interventi, il mio, brevissimo, è stato alla fine applaudito. Ricordo che qualcuno del pubblico allora si alzò e chiese un microfono per commentare. Disse più o meno che era troppo facile strappare l’applauso recitando poesie. Reso d’idea che ci voglia un certo coraggio scegliere di sostituire, in un contesto del genere, una poesia ad una paludata relazione). 
Ho inoltre lasciato agli atti il testo La restituzione poetica, che trovate qui sotto. Le vicende  successive di questo testo, per lo più intitolato Il ricercatore debole, le racconto qui.

Programma del Seminario

GUARDARE E RACCONTARE LE IMPRESE

Verso un’antropologia dell’imprenditorialità e del management
Venezia, Auditorium S. Margherita, 11 settembre 2002, ore 14.00

Il seminario vuole contribuire allo sviluppo di un rinnovato approccio culturale all’analisi dell’impresa guardando all’imprenditorialità ed al management non come fenomeni astrattamente isolabili ma come aspetti propri di più vasti processi culturali e sociali. Tra l’aneddotica giornalistica e l’aridità delle statistiche esistono, infatti, possibilità di guardare e raccontare l’attività imprenditoriale e il lavoro nelle imprese come fenomeni costruiti e vissuti da persone particolari che agiscono concretamente in tempi e luoghi specifici e che divengono così parte integrante della cultura di una comunità e di un territorio. La distanza tra l’immagine che le imprese hanno di se stesse e quella prodotta da ricercatori, consulenti e mass-media motiva l’espansione dei campi di applicazione dell’osservazione antropologica, che non ha più a che fare solo con il lontano e lo sconosciuto, ma potenzialmente con ogni ambito organizzativo nelle società contemporanee. Ciò favorisce un interesse peculiare per ciò che accade nel qui e ora dell’esperienza quotidiana di chi vive nelle organizzazioni produttive ed opera nei mercati. Nuovi modi di guardare, comprendere e raccontare le imprese ed il lavoro manageriale riflettono una rinnovata attenzione per le pratiche minute e reali e per il senso soggettivo che gli attori danno a ciò che fanno e al mondo in cui vivono. Lo stesso contrasto tra “scienza” e “finzione” tende a sfumare nel momento in cui letteratura, cinema e teatro mostrano di saper cogliere più precisamente ed in profondità la complessità e l’articolazione della vita nelle organizzazioni produttive. E proprio nel tentativo di segnalare questa dimensione interdisciplinare che al seminario sono stati invitati a contribuire studiosi di management, consulenti ed imprenditori ma anche antropologi, sociologi, attori e scrittori.

Programma

13.30 Registrazione
14.00 Fabrizio Panozzo, Università di Venezia
14.10 Francesco Varanini, ISTUD
14.30 Roberto Malighetti, Università di Milano – Bicocca
14.50 Barbara Czarniawska, Università di Göteborg
15.10 Mario Giaccone, IRES Veneto
15.30 Daniele Marini, Fondazione Nordest e Università di Padova
16.00 Pausa caffè
16.30 Vittorio Filippi, Sociologo, Università di Venezia
16.50 Claudia Piccardo, Psicologa, Università di Torino
17.10 Alberto Fedel, Consulente, Nova Consulting
17.30 Paolo Vergnani, Attore, Teatro d’impresa
17.50 Giulio Mozzi, Scrittore, Scritture creative riunite
18.10 Umberto Curi, Filosofo, Università di Padova
18.30 Dibattito
19.30 Aperitivo

Il programma è disponibile anche sul sito web http://www.venetoinnovazione.it/itace/Antropologia-Seminario.htm dove sarà costantemente aggiornato con notizie sui relatori, titoli definitivi degli interventi ed altre informazioni utili sui temi trattati nel seminario oltre ad un forum tematico sul rapporto tra antropologia e management.

Poesie

INTERSTIZI

Ho conosciuto palombari,
piloti di Cessna e di bob,
commercianti di monili, portaborse,
poeti d’avanguardia, guardiacaccia,
ali destre, catchers,
veterinari, collezionisti di farfalle,
autisti di ambulanze, falegnami,
studiosi di cimbro e di eschimese

ma per l’Azienda solo anonimi impiegati
al massimo, di primo livello.

ROTOCALCO

La Cotrell nera
sferragliava assordante
sputando umori catramosi.
L’orgoglio operaio osservava a braccia conserte
la macchina girare
nutrita da secchiate di vernice
ancora come quando si espandeva a vista d’occhio
lo stabilimento in budelli di tufo
e le donne furono esiliate alla fine
lontano, in Legatoria.
L’avviamento un rito e il tagliopiega
regolato dietro un telone
perché i giovani non devono imparare
tutto e subito
e giù nel sotterraneo, sotto il ventre della macchina
uomini soli in attesa e poi il gesto
rapido e preciso del lancio
della nuova bobina
e dopo avermi guardato negli occhi mi spiegarono
come bastava la punta di una biro
per sabotare la produzione
ma alla rottura carta scattava
pronta senza remore la solidarietà del gruppo
e per la vendemmia l’assenteismo
era senza peccato
e il rancio portato da casa, e durante la notte
bottiglie in fresco nelle vasche
vuote di cilindri,
e credo passeggino ancora, all’alba, a testa bassa,
fuori dai cancelli della fabbrica
vecchi capomacchina assuefatti
alla sirena del primo turno
e agli effluvi del toluolo

MATERIALI COMPOSITI A CASTEL DEL PIANO

Abbiamo tutti un po’ di terra, olivi e vino,
la qualità ci sembrava un buon discorso
i ritmi serrati molto meno
lavoravo alla macchina per dar da mangiare ai tacchini
ed ora da due mesi qui, macchina
a controllo numerico
tutta un’altra cosa leggere quello che viene
giù dal CAD-CAM e poi non trovo mai
quando comincio il turno gli attrezzi al loro posto
e si ha un bel dire, ma poi
ogni pezzo viene fuori diverso dall’altro, pezzi che
non so per cosa serviranno
mi dicono centrali nucleari
o sedie a sdraio
materiali compositi, lavorazione
per estrazione di trucioli
consegna extra super urgente
piazzare la notte senza il capoturno
mia responsabilità chi me lo fa fare
primi mesi di ansia
chiaro che uno deve impara’
sudore sul muletto il sabato
ma almeno la domenica no
scriverò un libro sul Cobol
la penna ottica sembrava la cosa più difficile
ma poi ci si abitua anche a questo
e magari invece che ingegneri
come capi persone in gamba che sappiano
colloquiare con noi

COFFEE BREAK

L’ordine del giorno recitava
“Linee generali
della ristrutturazione”.
La crisi incombeva
tutto doveva cambiare.
Ma ci tranquillizzò
-niente era cambiato-
il coffee (di sempre) break.

Queste poesie sono comprese nella raccolta Francesco Varanini, T’adoriam budget divino. Critica della ragione aziendale, Milano, Sperling & Kupfer, 1994.

 

Il Bingo delle cazzate

Immaginate la tradizionale Convention annuale, alla quale sono invitati tutti i dipendenti. Immaginate una diversa Convention, dove tutti i dirigenti sono riuniti per essere resi edotti delle nuove linee strategiche. Immaginate un fine settimana fuori sede, invitata la prima linea dirigenziale, tema: I nostri valori di fronte al cambiamento. Immaginate un incontro rivolto a tutti i quadri intermedi, inteso come tappa fondamentale di un grande progetto di Change Management.
Parlerà il Presidente, o l’Amministratore Delegato, o il Direttore Generale. Forse diranno la loro anche i consulenti che guidano il progetto. Forse farà il punto sulla situazione il Project Leader.
Immaginate la schiera dei partecipanti, costretti ad intervenire e ad ascoltare, ma inevitabilmente prevenuti, perché hanno già partecipato nel corso degli ultimi anni, o degli ultimi mesi, a troppi analoghi incontri, a troppe Convention sempre uguali l’una all’altra.
Immaginate gli organizzatori, che per far fronte al rischio di una bassa attenzione dedicano cura agli aspetti formali dell’evento. Magari qualche ospite, un personaggio televisivo lì per tener su l’atmosfera, il buffet, il gioco di suoni e di luci attraverso un uso sempre più sofisticato di Power Point, quando non anche di costosi video.
Immaginate che, nonostante la spettacolarizzazione dell’evento, fatalmente, ancora una volta, la speranza dei partecipanti di ascoltare qualcosa di nuovo e di veramente interessante vada delusa.
Come potranno i partecipanti fingere di manifestare interesse, evitando che il tedio, il fastidio, il disappunto traspaiano troppo evidentemente dai loro volti? Come potranno allo stesso tempo rendere meno noiosa la necessaria permanenza nella sala?
Ecco qui la grande idea del Bingo delle Cazzate. Pensate ad una cartella da tombola, o da bingo, dove al posto dei numeri ci siano le parole, le frasi fatte, i luoghi comuni che inevitabilmente vengono tirati fuori da chi sta parlando. Mission, valori, cultura, globalizzazione, Internet, portale verticale, cambiamento, cultura del servizio, attenzione al cliente – ci fermiamo, non temete, volevamo solo rendere l’idea.
Ora, in cosa consiste il gioco? Ognuno dei partecipanti ha sulle ginocchia la sua cartella. Finge astutamente di ascoltare con rapimento le alate frasi di chi sta parlando, ma in realtà ha lo sguardo posto sulla cartella. Ha buone probabilità di sentire pronunciare le frasi presenti sulla sua cartella. Ha buone probabilità, quindi, di fare ambo, terna, cinquina, tombola. Non sappiamo cosa vincerà. Nulla probabilmente, ma resta la soddisfazione di aver smascherato la vanità del discorso che sta ascoltando è già una vittoria. E intanto in tempo sarà passato più velocemente. Se poi, fatto terno, a qualcun scappa una manifestazione di giubilo, e di lì si innesca un applauso che pervade tutta la sala, ben venga. Peccato che ne verrà sottolineata una volta di più la distanza tra coloro che dal palco pensano di parlare di cose importanti, a folle attente e pendenti dalla loro labbra, e gli astanti, che pensano a tutt’altro, patiscono una tremenda noia, non vedano l’ora che finisca, e meno male che hanno trovato questo bingo delle cazzate per svagarsi un po’ nel frattempo.
Non so se qualcuno ha effettivamente giocato al Bingo delle cazzate durante una di queste riunioni. Quello che so per certo è che le cartelle del Bingo delle cazzate esistono, e circolano come samizdat aziendale. È ovviamente raro che vengano mostrate a professional delle Risorse Umane, o a consulenti, a persone insomma che sono viste come ‘dall’altra parate della barricata’. Con legittimo orgoglio mostro quindi questo raro reperto.
Tentiamo di trarre una morale. La folla silenziosa che vive all’interno dell’organizzazione rifiuta il cambiamento. Cerca conferme del fatto che il cambiamento non ci sarà. Sa per esperienza che più il cambiamento è annunciato, enunciato a parole, più difficilmente ci sarà cambiamento nei fatti. Cerca e trova così rassicurazione nel fatto che le parole sono sempre le stesse, e siccome le stesse parole sono state usate anche la volta scorsa, quando poi in realtà non è cambiato niente, è probabile –e se ne può trarre un sospiro di sollievo– che anche stavolta resterà sostanzialmente tutto come prima.
Se però guardiamo la questione dal punto di vista dei change manager, di coloro che il cambiamento lo considerano necessario e cercano di realizzarlo, la storia è molto più triste. Loro, purtroppo, chiusi nel loro mondo, legati ai loro soliti strumenti, strumenti della cui efficacia si illudono, continuano ad agire senza saper leggere cosa passa dietro lo sguardo apparentemente attento della folla silenziosa. Oppure, peggio, sono in fondo scarsamente interessati al realizzarsi di un vero cambiamento – limitandosi a recitare ritualmente la propria parte di fautori ‘a parole’ del cambiamento.
Infine, un monito. Ogni volta che parliamo in pubblico di temi che dovrebbero coinvolgere profondamente gli astanti, in particolare quando ci sembra di aver conquistato la loro attenzione, dovremmo pensare che forse il loro rapimento ha un’altra origine. Stanno in realtà giocando al Bingo delle cazzate.

La forza del ricercatore debole

Scelte di fondo e modelli alti
Sono da guardare con sospetto “tutte le idee che comportano il tentativo di ‘far prendere coscienza agli altri’ di qualcosa, pretendendo di sapere meglio di loro stessi cosa sia meglio per loro” (Peter Berger, in Hunter e Ainley, 1896; vedi Berger et al. 1973, Berger 1979). Purtroppo, in troppi casi, è proprio ciò che accade: gli ‘esperti’ pretendono di essere in grado di dire all’imprenditore e al manager chi sono e cosa devono fare. È un approccio pericoloso, perché nasconde un implicito giudizio, una lettura della differenza come deficit (Fabbri 1973), una sottolineatura della distanza: “tu sei completamente diverso, ma io ti perdono” (Rohéim 1950; vedi anche Bastide 1971, Varanini 1977).
Contro questo atteggiamento, è fondamentale tornare a ragionare senza pregiudizi sul metodo: come conoscere un mondo; come raccontarlo. Non per questo rinunciando a prendere spunto da ricerche ormai classiche (Piccardo e Benozzo, 1996).
Pensiamo all’immenso lavoro svolto da Thomas e Znaniecki per testimoniare l’odissea dei contadini polacchi, di qua e di là dall’oceano: la loro opera ci mostra come i materiali prodotti dagli attori parlino da soli, meglio di qualsiasi commento e di qualsiasi autorevole interpretazione (Thomas e Znaniecki 1918–1920). Whyte ci mostra invece come ricostruire un mondo ‘urbano’ e ‘moderno’ (Whyte 1943), ben lontano dai mondi esotici di cui di solito parla l’antropologia. Kracauer ci racconta storie di impiegati berlinesi, con l’arte di chi sa raccontare, e anche da vero sociologo – ma senza preoccuparsi troppo di questioni metodologiche (Kracauer 1930). Wright Mills torna a parlarci del lavoro d’ufficio, in America, immediatamente prima dell’office automation (Wright Mills 1959). Più recentemente Kunda ci fa conoscere una grande impresa high tech di successo, in particolare ci porta ‘dentro’ dentro una divisione dell’azienda (Kunda 1991).
Mentre Thomas e Znaniecki lasciano lavorare i materiali –lettere e documenti diversi appaiono in primo piano, costruendo una sorta di romanzo collettivo, a più voci– Kracauer, Whyte, Wright Mills, Kunda, ci parlano in prima persona in quanto ‘autori forti’: la ricerca, le fonti, restano nella cucina del libro, che ci appare come racconto costruito senza inciampi. Kunda, anzi, mostra una particolare attenzione alla buona scrittura, e nelle pagine finali si allontana esplicitamente dal ruolo dell’etnografo per virare sul personale, sulle motivazioni soggettive che l’hanno spinto verso questa ricerca.
Si afferma parallelamente una diversa forma di restituzione del lavoro svolto sul campo: la storia di vita. Esemplari in questo senso le opere messicane di Lewis: qui funziona già la mediazione tecnologica, l’uso del registratore. Ma il prodotto, narrato in prima persona dal protagonista, è un quasi-romanzo (Lewis 1951, 1961, 1964), veramente difficile da distinguere dalla narrativa latinoamericana contemporanea (che non è poi tanto ‘di invenzione’ perché si rifà quasi sempre a storie orali già raccontate a voce). Sulla scia di Lewis si muove il cubano Barnet. Ci presenta il racconto autobiografico di un ultacentenario ex schiavo (Barnet 1966) come ‘racconto etnico’, affermando nell’introduzione: “far parlare un informatore è, una certa misura, fare letteratura”. È aperta così la strada per libri presentati come romanzi, ma che sono ancora, esattamente come nel caso di Lewis e di Barnet, storie di vita raccolte al registratore: è il caso dell’operaio di Balestrini, che non a caso qualche hanno dopo pubblicherà la continuazione del ‘romanzo’ di Balestrini firmando l’opera come autore (Balestrini 1971; Varanini 1982).
Questi testi appaiono al lettore fluidi e levigati; ma dietro c’è una macchina al lavoro. Anche nel caso di Kunda, un anno di ricerca. Prima una attenta analisi di materiali documentari: house organ, procedure, slogan, dépliant commerciali, videoregistrazioni, resoconti di discorsi; poi una osservazione della vita quotidiana dell’organizzazione, dalle riunioni del board agli incontri informali in mensa; poi una serie di interviste.

Modalità di restituzione e rappresentazioni della realtà
Ora, bisogna notare che l’inizio degli anni novanta, e cioè il momento in cui conduce la sua ricerca Kunda, segnano un punto di svolta: fino ad allora il libro può essere considerato lo strumento esclusivo di restituzione di un lavoro di ricerca. E il libro porta con se una forma: sequenziale, ordinata restituzione, controllata da una figura che la domina, il responsabile della ricerca che firma il libro. Con gli anni novanta si affermano la multimedialità, l’ipertestualità e l’interattività. Di conseguenza, la restituzione non può più essere quella di prima. I risultati della ricerca possono e debbono essere presentati attraverso media diversi. La Rete permette una continua interazione tra attori coinvolti nella ricerca e ricercatore, tale per cui le restituzioni, sempre parziali, avvengono in momenti diversi, e la ricerca non è mai definitivamente chiusa: la chiusura, intesa come soluzione di continuità, esiste solo perché il libro, in un dato momento è ‘chiuso in redazione’ e mandato in stampa; questa cesura tecnologica è assente, ad esempio, nel caso di un sito web (Ong 1982, Bolter 1991, Turkle 1995. Bolter e Grusin 1999).
Questo per dire che di fronte a una ricerca che ha prodotto risultati, il libro o l’articolo, oggi, è solo una delle diverse forme di restituzione possibili. Una restituzione diversa e complementare è, ad esempio, una base dati strutturata, accessibile in base a criteri di ricerca predefiniti. O un ipertesto al cui interno si possibile muoversi scegliendo il percorso. O un Web visitabile nella logica del ‘surfing’, utilizzando un motore di ricerca. (Nelson 1981, Landow 1992).
Il testo che contiene i risultati della ricerca sarà dunque una ‘galassia di contenuti senza forma’, dai confini sfumati: perché ogni ricerca nasce da altre ricerche, confina con altre ricerche.
E cioè appartiene al baule di ‘galassie testuali’ che il lettore può di volta in volta montare a piacere, come accade con certi romanzi, non a caso anticipatori di forme che vanno oltre il libro (Cortázar 1963).
Spezzoni, brani, brandelli, certo dotati di un senso complessivo – ma il senso complessivo è quello di un discorso corale, cui contribuiscono tutti gli attori coinvolti a qualsiasi titolo nella ricerca.
Non a caso parliamo di discorso. ‘Discorrere’: ‘correre qua e là’. Quindi: ‘ragionare senza confini troppo precisi’ (Zadeh 1979), e soprattutto prescindendo dai confini imposti da altri. Muoversi in una direzione, ruotare attorno a un punto di riferimento, ma senza un ordine vincolante, motivati anche dal piacere e dal sogno, dal desiderio di farsi conoscere per chi si è realmente.
Qualcosa di simile al gioco di un bambino (Wittgenstein, 1953) e allo stesso tempo alla navigazione nella Rete. Qualcosa che trova riferimento nelle ultime frontiere della ricerca scientifica: la teoria dei quanti ci sbatte sotto gli occhi una immagine della realtà che appare come rete di probabili interconnessioni (Accardi 1997).
Il mondo – così come le ricerche che ne descrivono modeste porzioni– è un sistema complesso, apparentemente disordinato. Una trama di elementi interdipendenti, dove nessuna delle proprietà di una qualsiasi parte della trama è fondamentale; esse derivano tutte dalle proprietà delle altre parti, e la coerenza globale delle relazioni reciproche determina la struttura dell’intera trama (Bateson 1972, Kauffman 1995).
Il lavoro da farsi sulla gran massa dei contenuti che emergono osservando un mondo non dovrà essere fondato sulla distanza, sul distacco critico, ma sulla vicinanza. Su un atteggiamento empatico: un processo di identificazione, una sorta di comunione affettiva pone, si spera, nelle condizioni di comprendere ‘cosa vogliono dire’ le persone che abbiamo conosciuto.
Gli osservatori non sono estranei al mondo osservato (Maturana e Varela 1980): ne fanno parte, con un loro specifico ruolo, fondato su una competenza, ma anche su una fiducia. Si può dire che una ricerca è efficace solo se ricercatori e mondo si sono reciprocamente scelti.
Così come l’imprenditore costruisce il suo mondo, organizzando il lavoro di persone e di macchine, così gli osservatori organizzano le parole raccolte. In entrambi i casi, una forma di produzione. Se valgono i presupposti, il frutto del lavoro degli imprenditori ed il frutto del lavoro dei ricercatori saranno legati da una relazione di autosomiglianza.
Se l’obiettivo della ricerca è esplicitato agli abitatori del mondo visitato, tra gli abitatori del mondo si autoselezioneranno i soggetti interessati alla ricerca. Il campione è un frattale dell’universo.
C’è una simmetria intrinseca dell’insieme. I discorsi liberamente pronunciati dai singoli soggetti si autorganizzano in un insieme coerente. Il tutto è simile a un suo componente. Se analizziamo una parte d’immagine e la ingrandiamo, osserviamo che il particolare è simile o identico all’immagine completa. (Non è questa la sede per un approfondimento della relazione tra ricerca sociale e ricerca scientifica di fronte ai sistemi complessi (Kauffman 1995). Per una rassegna rimandiamo a Capra 1997).

La logica della scoperta ed il ‘tirare a indovinare’
Jung parla per la prima volta di ‘sincronicità’ in una prefazione all’I Ching. Nel concetto c’è quindi un evidente rimando al pensiero orientale. Dove il pensiero occidentale vede un rapporto causa–effetto, il pensiero sincronico vede un evento (soggettivo o oggettivo) come elemento di una totalità. Ed è in funzione della sua appartenenza a questa totalità che l’evento trova la sua spiegazione (Jung 1952).
Pensiero orientale a parte, siamo vicini a quell’atteggiamento che il filosofo e scienziato americano Peirce (troppo geniale, eccentrico ed innovatore per essere compreso dai suo contemporanei) chiamava abduzione. Un processo logico che si basa sulla fiducia che esista un’affinità tra la mente di chi ragiona e l’ambiente, sufficiente a rendere il tentativo di indovinare non completamente privo di speranza. “È evidente che se l’uomo non avesse avuto una luce interiore tendente a rendere vere le sue congetture”, scrisse una volta Peirce, “la razza umana si sarebbe estinta per la totale incapacità nella lotta per la sopravvivenza”. (Peirce 1935-1966).
Altri esempi possono illustrare questo atteggiamento. “Ho sempre notato che c’è un metodo nella pazzia di Holmes” dice Watson all’Ispettore Forrester. Al che l’Ispettore replica: “Qualcuno potrebbe dire che c’è della pazzia nel suo metodo”. Cosa è la pazzia? Dice Voltaire: “Avere delle erronee percezioni e ragionare correttamente a partire da queste”.
“Etimologicamente”, scrive Umberto Eco, “‘invenzione’ è l’atto di scoprire qualcosa che già esisteva da qualche parte, e Holmes inventa nel senso inteso da Michelangelo quando dice che lo scultore scopre nella pietra la statua che è già circoscritta e nascosta nella materia sotto il marmo in eccesso (‘soverchio’)” (Eco e Sebeok 1983). Quando una lettura del mondo è stata trovata, inventata –ma solo allora– appare chiaro che quella, e solo quella, è la lettura che poteva emergere in quel contesto. La soluzione, in un certo senso, ‘esisteva già’. Doveva solo essere scoperta. (Non per questo è la ‘soluzione migliore in assoluto’: la soluzione ottimale anzi non esiste; guardando il problema in un altro modo sarebbe stata trovata un’altra soluzione , forse ugualmente efficace).
Eccoci di fronte a un punto chiave del nostro approccio: il metodo, per essere efficace, per essere in grado di dare voce a un mondo, deve essere ‘autosomigliante’ al mondo indagato, deve emergere dal mondo indagato.
Deriviamo spesso dall’osservazione forti indicazioni di verità, senza essere in grado di specificare quali circostanza dell’esperienza hanno convogliato quelle indicazioni. Se siamo ‘ricercatori forti’, di fronte a questi stimoli provenienti dall’ambiente, cercheremo di ricondurli a una qualche nostra previa ed esterna teoria interpretativa. Ma perderemo così tempo, e ci allontaneremo dal contesto e dalla possibilità di comprendere. Se invece ci abbandoneremo all’emozione della scoperta, se ci lasceremo guidare dalle tracce, dagli indizi, dai segnali deboli, se lasceremo che pur con molti tasselli mancanti il quadro si ricostruisca da sé, allora forse cominceremo a capire qualcosa.
A partire da questo ‘stare in situazione’ la storia che il mondo visitato ha da raccontarci si costruisce da sola.

Il ‘ricercatore debole’
Sarà possibile avvicinarsi a questo obiettivo – lasciare spazio, in un libro, alla voce narrante del piccolo e medio imprenditore – solo se chi conduce la ricerca e organizza i risultati in un libro sceglie consapevolmente di limitare il proprio ruolo.
Mantenendosi lontano da pur notevoli modelli. Kunda è ancora un ‘autore forte’, che impone il suo punto di vista. Sono ‘autori forti’ anche Lewis e Barnet (Barnet 1970) e Balestrini: per loro, quasi-romanzieri, far parlare l’altro è ‘fare letteratura’. Sono ‘autori forti’, in fondo, anche gli esponenti della recente scuola fondata su un Narrative Approach to Organization Studies se – come appare – non si preoccupano tanto di lasciare spazio alla narrazione, quanto di ‘leggere autorevolmente’, ‘interpretare’ ciò che viene raccontato (Czarniawska 1997, Czarniawska 1998). Se Lewis e Barnet sono quasi-romanzieri, Czarniawska è un quasi-critico letterario, o un quasi-filologo.
All’opposto di questi modelli, che impongono all’opera dell’‘autore’ -sia esso sociologo, antropologo o romanziere- il sigillo della loro pretesa originalità, sta la figura del cantastorie, lo storyteller, il narratore semiprofessionista itinerante che troviamo ancora attivo in tutte le periferie del mondo. Un rimaneggiatore di storie già raccontate, di parole già dette che – da questo ruolo – non si sente umiliato.
Del resto, è impossibile, o irrilevante determinare il momento in cui la storia è stata raccontata la prima volta. Ciò che conta è che la capacità della storia di esprimere un modo socialmente condiviso di vedere la realtà (Berger e Luckmann 1966). La fonte del sapere, qui, non sta nella mediazione dell’autore. L’opera si costruisce ‘da sola’, nel tempo: è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione (Menéndez Pidal, 1924, Ong 1982).
A prima vista chi vive all’interno di una organizzazione segue la via della praxis, ‘azione’; ma a ben guardare segue il sentiero della poiesis: ‘produzione’, ‘creazione’, edificazione di un mondo unico e irripetibile, uguale solo a se stesso (Maturana e Varela 1980). L’imprenditore, così come l’impiegato o l’operaio, vive immerso in una vita quotidiana ricca e soddisfacente; la sua capacità creativa e produttiva si manifesta nel lavoro quotidiano – perciò, se pur ha storie meravigliose da raccontare, non ha tempo per scrivere, o ritengono inutile scrivere (Lotman 1985). Ed è particolarmente a proprio agio con l’oralità, e rifiuta le parole scritte inutilmente complicate ed artefatte.
In ogni organizzazione si ‘raccontano storie’: ogni mondo crea i suoi miti, trasforma in leggenda la storia delle proprie origini, ricorda attraverso aneddoti i momenti di cambiamento. La conoscenza sta in queste storie, e queste storie dobbiamo – in quanto ricercatori, testimoni, ‘autori deboli’ – dobbiamo essere capaci di far affiorare.
Se il ‘ricercatore forte’ arriva sul campo di indagine bardato delle sue sicurezze metodologiche, delle sue ipotesi di lavoro, il ‘ricercatore debole’ arriva ricco solo di dubbi. Il ‘ricercatore forte’ lavora per ‘far prendere coscienza agli altri’, pretendendo di spiegare come funziona un mondo ai suoi stessi abitatori. Mentre il ‘ricercatore debole’ si sforza di scoprire e di mettere in mostra i racconti nati in un mondo – partendo dalla convinzione che la sua capacità di comprendere è comunque limitata, e che la sua interpretazione, lungi dall’aggiungere, toglie qualcosa al racconto.
Il ‘ricercatore forte’ aveva l’alibi della necessità tecnica. Era necessario un suo intervento per organizzare la restituzione: il libro, l’articolo, frutto del suo autorevole ma forse inquinante intervento erano l’unico modo di attribuire un senso al lavoro svolto. Ma la tecnologia, che è poiesis -un modo di produrre, creare, ‘saper fare’- libera dal vincolo, non rendendo più necessaria l’organizzazione dell’autore. Il testo si autoorganizza, ha un senso intrinseco che si manifesta attraverso operazioni condotte autonomamente dal lettore su basi dati ed ipertesti.
Non serve più dunque un ‘ricercatore forte’. Serve un ‘ricercatore debole’, capace di favorire una accumulazione di materiali e capace di (limitarsi a) proporre probabili descrizioni del mondo visitato. Il ricercatore è ‘debole’ non perché è scarsamente dotato di competenze. Dovrà essere invece particolarmente dotato. Ma le sue competenze dovranno riguardare l’accumulazione più che l’interpretazione, la lettura più che la scrittura, l’individuazione di tracce più che la ricostruzione di percorsi. La scoperta, e non l’organizzazione. Il ricercatore si qualifica come tale perché sa vedere la realtà latente, sa osservare i ‘segnali deboli’.

La sagacia del poeta
L’Information & Communication Technology, in quanto poiesis, permette di leggere gli eventi senza autorevoli mediazioni. Il singolo lettore ha a disposizione gli strumenti per l’interpretazione. Tutte le interpretazioni sono al contempo legittime e subottimali. Sappiamo bene però che il relativismo ridefinisce il campo, ma non porta con se la soluzione. Se tutte le interpretazioni sono buone, quale è più buona delle altre?
La risposta certo non sta, come taluni vorrebbero, nel limitare d’autorità l’accesso alle risorse: i new media, il Web come enorme base dati, Internet come rete di interazioni non sono fastidiosi accidenti, ma la base materiale di un prima forse inimmaginabile approccio alla conoscenza.
La risposta sta invece -forse- nel dire che alcuni approcci ed alcuni strumenti, di fronte a questa incombente complessità, sono più di altri utili ed efficaci.
Percorrendo questa strada, arriviamo a dire che il ‘ricercatore debole’ è vicino al ‘poeta romantico’. Per entrambi l’idea di un ordine riconducibile a schemi è una costrizione che esclude porzioni troppo grandi del sistema vivente (Whitehead 1925). Per entrambi ciò che conta innanzitutto è l’abduzione, l’incessante riformulazione di ipotesi interpretative, di nuove letture del mondo. Per entrambi il punto di partenza sta nell’affermare il valore della diversità. Per entrambi la sensibilità soggettiva, che si manifesta come scostamento dalla regola, è la principale ricchezza. Per entrambi gli strumenti di osservazione non sono dati a priori, ma sono da scoprire di volta in volta a seconda della situazione, strettamente legati all’oggetto di indagine. Entrambi sono disposti a lasciarsi sorprendere. Entrambi accettano e tentano di comprendere il mistero, il segreto, l’occulto, il crimine.
Entrambi, il poeta ed il ricercatore, guardano innanzitutto alle code della gaussiana, ai luoghi marginali colmi di informazioni ridondanti, parziali, disordinate – ma proprio per questo ricche.
(Con questo, nessuno mette in dubbio l’esigenza di guardare ai luoghi popolati da informazioni ‘normali’: ma la parte centrale della gaussiana è già osservata da tanti occhi, gli occhi di tutti i ‘ricercatori forti’).
Come il Prefetto di polizia della Lettera rubata di Poe (Poe 1845), che non riesce a comprendere le azioni del Ministro, che non a caso era anche un poeta. “The Minister had resorted to the comprehensive and sagacious expedient of not attempting to conceal it at all”. La realtà è sotto gli occhi di tutti, ma il suo senso resta invisibile agli occhi del prefetto, condizionato dai rigori del metodo scientifico.
Talvolta, più che una conoscenza forte, ‘epistemologia’ -conoscenza fondata su una griglia posta sopra la realtà-, serve una ‘agnoiologia’, ‘the science or study of ignorance’ (Ferrier 1854). Sapere di non sapere, pensare che il nostro orizzonte è ben lungi dall’essere l’orizzonte del mondo; pensare che il metodo che abbiamo appreso non è l’unico, e tantomeno il migliore; pensare che non tutti ragionano come noi.
Dico qui: consideriamo anche l’importanza delle code della gaussiana. E affermo quello che più, in quanto ricercatore, mi piace fare. Sapendo che i risultati in larga misura dipendono dal piacere.
La poesia si distingue dalla prosa. Nella prosa il reale è semplificato sull’altare della leggibilità del testo. La prosa -discorso sequenziale, in linea retta- propone ricostruzioni organizzate, coerenti, prive di contraddizioni. La restituzione del lavoro di ricerca è la costruzione di un ordine.
La poesia, all’opposto, accetta l’irredimibile complessità del reale e si limita a rappresentarla. Non preoccupandosi di essere immediatamente intelligibile, illumina l’occulto e lo rende in qualche sorprendente modo comprensibile.
Dove la prosa elimina i vincoli che comprometterebbero l’ordine del quadro, la poesia decolla proprio a partire dai vincoli. Vincoli legati ai contenuti: il reale è accettato così com’è, nella sua complessità. Vincoli inerenti al metodo ed alle modalità di lettura: è un vincolo la difficoltà di vedere oltre le apparenze, l’impossibilità di avere un quadro completo del mondo osservato. Fino ai vincoli autoimposti, che sono un modo di riportare nella forma la complessità dei contenuti: la metrica, la spezzatura del testo in versi, la programmatica incompletezza del racconto.
Ma proprio dai vincoli emerge il risultato: ciò che è altrimenti invisibile è misteriosamente portato alla luce, mostrato.
Il poeta è un ricercatore debole, il ricercatore debole è un poeta. La frammentarietà del mondo, l’emergere del reale attraverso tracce labili e segnali appena intelligibili, è efficacemente rispecchiata dalla poesia. Ciò che non può essere detto altrimenti, spesso, può essere detto in versi.

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