La formazione di fronte alla cultura digitale ed al World Wide Web


Trovate qui un estratto -due paragrafi- del mio testo La formazione digitale e la memoria del cinema, apparso in: Sergio Di Giorgi e Dario Forti (a cura  di) Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, Angeli, 2011.

Ogni cosa è digitale
Immaginiamoci oggi nel buio di una sala cinematografica. Il luogo può anche essere la stessa sala dove andavamo da ragazzi. Lo schermo sul quale si proietta l’immagine, magari è lo stesso di un tempo. Eppure tutto è cambiato.
Il testo filmico non è più appoggiato sul tradizionale supporto, la pellicola. Il testo è conservato su un qualsiasi supporto di memoria -un compact disk, un disco rigido, un dischetto, una chiave usb-. Su quella memoria è scritto il codice. Il supporto di memoria può essere qui, nella sala cinematografica, direttamente connessa al proiettore- o può essere in un qualsiasi altro luogo, al quale è connessa la nostra sala.
Il tradizionale processo di produzione del film permette modifiche al testo solo fino al momento in cui è stampata la matrice. La pellicola non è che un copia, una riproduzione immodificabile della versione finale del film, stabilita dal regista e consegnata al distributore. La pellicola non può essere usata se non nel modo previsto a priori. Di qui lo stupore di quel professore di Esmeraldas, che non poteva capacitarsi di come la versione del testo filmico appena proiettata fosse erronea, corrotta. Come poteva essere accaduto, visto che la tecnologia impediva che il testo potesse essere manipolato?
Il codice conservato nel supporto di memoria è invece per sua natura manipolabile. Per quanto autore ed editore tentino di impedire copie ed interventi sul testo, ciò che ognuno ha a disposizione non è solo una versione chiusa del testo. Abbiamo in realtà a disposizione il codice, il meta-testo, la fonte che può generare versioni diverse del testo. Un montaggio diverso, o la sostituzione della colonna sonora sono sempre possibili.
Vale per il testo filmico ciò che vale per il testo di un libro. Il file Word del testo che ora sto scrivendo -il codice del testo che sto scrivendo- non è mai definitivo, potrà sempre essere modificato. L’analogia è del tutto fondata, perché il codice di ogni cosa, di ogni oggetto di conoscenza -sia questo fatto di parole scritte, immagini fisse o in movimento, voci o musica- sono costruiti a partire dalla stessa tecnologia.
Un altro esempio ci porta ancora più vicino alla quotidiana esperienza del formatore.
La musica dal vivo è affidata alla voce del cantante ed ai suoni che emergono dagli strumenti musicali, oltre che al contesto ambientale ed architettonico. Non cambia molto con la semplice amplificazione del suono. Le cose cambiano veramente quando, come accade ormai normalmente anche durante spettacoli dal vivo entra in gioco il computer. Le fonti sonore -tramite computer- sono trasformate in codice. Ed è il codice che poi -tramite il computer- è nuovamente trasformato in onde sonore percepibili dall’orecchio umano. In questa nuova situazione, ogni manipolazione, ogni modifica, ogni correzione è possibile.
Questo interessa al formatore: siamo abituati a considerare l’aula un mondo inviolabile. In quello spazio magico, in quella zona sacra che è l’aula ci pare che nulla possa accadere senza al di fuori del controllo degli attori presenti. L’aula e la sala cinematografica in questo ci appaiono simbolicamente vicine: è il luogo dove si manifesta l’incantesimo -incantare: ‘recitare la formula magica’-. Il film si snoda nella sua interezza. La parola del docente non può essere manipolata.
In realtà, le cose non stanno più così. Formatori che si pretendono à la page parlano attraverso il microfono, e scelgono di avere in aula un tecnico del suono per meglio confezionare i previsti effetti speciali, fatti di suoni e immagini. Ora, forse questi formatori non pensano che in un simile contesto, in virtù della tecnologia, la loro stessa emissione vocale può essere manipolata. Può essere corretto il difetto nella dizione, ma possono anche essere sostituite le parole.
Anche per questo è importante conoscere la tecnologia. Per usarla, senza esserne usati.
Ho scritto finora codice. Ma ciò che conta è l’aggettivo: si tratta di codice digitale. Vediamo di cosa si tratta.
Negli Anni Trenta e Quaranta del secolo scorso c’erano due modi per inserire informazioni espresse tramite numeri in un sistema tecnologico: una macchina per scrivere, una macchina calcolatrice, la rete telefonica.
Si poteva comporre la sequenza dei numeri usando un apposito disco, come nel caso del telefono. In inglese il disco è dial. Dial è quindi anche il verbo che descrive l’azione. (Deriva dal latino dies, ‘giorno’, nel senso di meridiana e quindi di orologio).
Il dialing è ‘analogico’: si stabilisce una stabile corrispondenza tra un numero e il percorso fatto compiere al disco dal dito inserito nel foro che corrisponde al numero.
In alternativa, si può usare una tastiera. Qui il gesto del dito è discreto: ‘discontinuo’, un singolo tocco, separato da ogni altro, corrisponde all’inserimento di una singola informazione. Per dire di questo, si sarebbe potuto usare finger, ‘toccare con le dita della mano’. Non a caso si usa il verbo anche nel senso di ‘suonare uno strumento musicale usando le dita’. E nel parlare quotidiano anche nel senso di ‘informare’.
Ma serviva una espressione tecnica, specificamente riferita al nascente mondo del computing. Il computer è macchina capace di trattare informazioni, purché queste siano espresse tramite numeri. Serve quindi l’input: i numeri vanno ‘messi dentro’, la macchina va ‘alimentata’. Per parlare di questo, si sceglie di usare digit, traduzione del latino digitus, ‘dito della mano o del piede’ (l’inglese distingue tra finger, ‘dito della mano’, e toe, ‘dito del piede’).
C’era in latino una secondaria connessione con l’idea della metrica -digitus è il ‘pollice’, sedicesima parte del ‘piede’, misura di lunghezza-. Ma è solo in inglese che digit prende -per via di quest’idea dell’inserire numeri in una macchina tramite un gesto del dito- il senso di ‘numero, ‘cifra’.
Da digit, digital: ciò che riguarda il digit, e quindi oggi, per estensione, tutte la conoscenze digitized.
Dai gesti delle dita che schiacciano tasti corrispondenti a cifre, siamo passati oggi al codice che tutto descrive: testi, immagini fisse e in movimento, musica e voce. Tutto è già in origine codice digitale: il computer conserva in questa forma sia il testo che sto scrivendo, sia la fotografia che ho appena scattato, sia la mia voce durante una lezione. Ed essendo tutto digitale, tutto può essere manipolato, rielaborato, mischiato.
Senza la codifica digitale, non esiterebbe il Web, non avremmo né gli oggetti di conoscenza né la possibilità di connetterli tra di loro.

Il Web è formazione, la formazione è il Web
Tutto ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra vita di formatori, dunque, essendo passati attraverso la codifica digitale, -i programmi, i materiali di supporto, i libri, le immagini fisse e in movimento, la nostra stessa voce-, tutto ci appare sotto forma di oggetto di conoscenza, veicolabile e fruibile via Web. E del resto il nostro piccolo Web -la nostra piccola rete personale-, e la piccola rete dell’organizzazione cui apparteniamo, della comunità di pratiche di cui facciamo parte, non sono che u cui facciamo parte, non sono che una minuscola porzione dell’enorme Rete a cui ogni rete appartiene.
Perciò possiamo dire che la formazione è il Web, e che il Web è la formazione.
Per dire di questo, possiamo proporre un’analogia con quella rete ‘loose coupled’ che chiamiamo letteratura.
Borges, forse più di ogni altro autore del Ventesimo Secolo, ci spinge a osare, e a non dare per scontato lo ‘spazio letterario’. La Biblioteca di Babele distrugge i confini limitati che la nozione stessa di biblioteca porta con se. La costruzione di senso ci appare nel giardino dei sentieri che si biforcano slegata da qualsiasi cammino già percorso. Menard che riscrive il Don Quijote distrugge il ruolo consolidato dell’autore inteso come forgiatore di opera nuova. Funes che non riesce a dimenticare distrugge il ruolo del lettore stupido di fronte ad un libro nuovo.
Lo sguardo di Borges si affaccia dall’esterno sulla letteratura che conosciamo, facendocela apparire come niente più di una delle letterature possibili. I confini tra generi letterari, tra letterature nazionali, tra letteratura alta e letteratura bassa, alla luce del suo sguardo, ci appaiono del tutto convenzionali.
E ancora la letteratura, con Borges, ci appare come ‘costruzione in abisso’: Borges meta-autore scrive di Borges autore; dentro una biblioteca universale sta una biblioteca che contiene un altra biblioteca, e così in un gioco infinito. E dentro un libro sta un libro che rimanda ad ogni altro libro. E dunque la letteratura è un sistema ricorsivo: una macchina per compiere attività ripetitive. E dunque la letteratura è un meta-testo che contiene ogni testo. E dunque la letteratura è un prodotto collettivo, dove la figura del singolo autore appare ricondotta al suo marginalissimo significato. Il singolo autore è autore di niente più che minuscole varianti di un’opera che è costruzione sociale in continuo divenire. Ogni singola opera non è che una rete intimamente connesse a una rete più vasta, opera omnia.
Possiamo dire che Borges, con lo sguardo anticipatore dell’artista, ci parla della conoscenza, così come essa ci si presenta nell’epoca del computing e del World Wide Web.
Le figure dell’autore, del lettore e dell’interprete perdono le reciproche differenze, fino ad apparire come diversi atteggiamenti di una stesso persona.
La letteratura è fruibile come sistema percorribile muovendosi all’interno della singola opera con libertà sconfinata, seguendo una parola, una frase, un percorso di senso. Il testo non è più unidirezionale, condizionato da un inizio ed una fine, è invece liberamente percorribile come rete. Questa novità, possiamo sottolinearlo, è talmente rivoluzionaria da spingerci ad adottare una nuovo termine: ‘ipertesto’. Perché la parola ‘testo’ -che pure sta per ‘tessuto’, e quindi già ci parla di una rete- vede ridotto il suo senso dall’analogia con il libro. Siccome siamo abituati a conoscere di un testo l’unica versione che ci propone il libro stampato, per dire ‘testo come rete di possibilità’, ‘testo leggibile in enne modi’, abbiamo dovuto inventarci un’altra parola: ‘ipertesto’, appunto.
Con il Web, ancora, la letteratura non è più soggetta all’oblio. La produzione letteraria, abbiamo sempre pensato, è soggetta a vincoli dipendenti dal supporto. Un testo può restare inedito, e quindi ignoto. Un libro può essere smarrito, bruciato. Ma ora disponiamo di memoria infinita, non c’è più motivo per selezionare i testi da pubblicare. Anzi, possiamo dire che ogni testo è già pubblicato, almeno sul disco del computer dell’autore. Ogni testo ha quindi una vita futura – ed essendo i computer connessi tra di loro, sarà accessibile a potenziali lettori. E qualsiasi testo mancante, disperso, non comprometterà in ogni caso la consistenza del sistema letterario – così come una catastrofe locale non impedisce ad Internet di continuare a funzionare.
In questa luce ci appare criticabile l’atteggiamento di studiosi di letteratura, così come di formatori, che sia affacciano sullo scenario del Web, e si interessano a ciò che nel Web accade – ma seguitano a considerarlo un mondo a parte, un mondo separato e minore rispetto al nobile mondo della letteratura, o della formazione che abbiamo sempre conosciuto.
Dovremmo imparare a guardare altrimenti alla letteratura, così come alla formazione. Quello che in fondo il Web ci propone, è una nuova epistemologia, un modo di guardare al mondo.
Ci è di aiuto il semiologo Juri Lotman.
“L’universo semiotico”, ci dice Lotman, “può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato da singoli mattoni”. E questa è la formazione che conosciamo, fatta di singole opere: singoli programmi, singoli progetti, singoli corsi, singoli pacchetti di materiali formativi. “È però più feconda”, continua Lotman, “l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo (se non come un unico organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il ‘grande sistema’ chiamato semiosfera”.