Cosa vuol dire ‘digitale’?


Dietro le parole che usiamo quotidianamente, ormai senza troppo riflettere, stanno concetti non semplici, sui quali vale la pena di soffermarsi.
Una parola sulla quale ragionare è oggi certamente digitale.
La riflessione attorno al senso di questo aggettivo mi ha accompagnato nel corso degli anni.

Ricordo nel 2011 il capitolo “La formazione digitale e la memoria del cinema”, che sta in in Sergio De Giorgi e Dario Forti (a cura di), Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, Franco Angeli. La voce Digitale appare poi, sempre nel 2011, in Nuove parole del manager, Guerini. Torno a parlare di come cambia la formazione ai tempi della ‘cultura digitale’ in Vie della formazione, Guerini, 2013 e in  “Ripensare la formazione”, articolo apparso nel 2015 sulla rivista Sviluppo & Organizzazione, 262,

La digitalizzazione è poi uno dei temi centrali di Macchine per pensare, Guerini, 2016. Una storia della cultura digitale si trova  in: “Human being in the digital world: lessons from the past for future CIOs”, in Giorgio Bongiorno, Daniele Rizzo, Giovanni Vaia (Eds.), CIOs and the Digital Transformation, Springer, 2017.

Torno a chiedermi cosa vuol dire digitale in due  testi apparsi sul blog Dieci chili di perleWhat is Digital. Ma perché non dire Numerico? e Essere digitale. Cosa vuol dire. (I link rimandano ai due testi).

Nel secondo mi interrogo sulla traduzione del titolo di Being Digital, di Nicholas Negroponte, 1995. In italiano è Essere digitali. Copio qui di seguito la mia riflessione,

Due diverse maniere di intendere politicamente tempi del digitale.
In un primo caso, narrato dal plurale, ci si arrende -noi tutti costretti ad essere digitali- ad una sconfortante evidenza: la vita di ogni cittadino, esplicata tramite l’uso di computer, si traduce nel lasciare tracce digitali. Queste tracce, che chiamiamo dati, finiscono per essere la fonte e la base di ogni processo decisionale. La classe politica conoscerà i comportamenti dei cittadini attraverso i dati. Il manager conoscerà i clienti ed i lavoratori impegnati in azienda attraverso i dati. In fondo, una nuova schiavitù.
Ma dimentichiamo così l’approccio al digitale singolare e personale. Anche in presenza della minaccia di un costante furto di dati, anche in presenza di app che ci offrono insipide pappe pronte, possiamo coltivare quelle speranze che muovevano gli innovatori degli Anni Sessanta. Essere digitale è allargare l’area della propria coscienza. Disponiamo oggi di strumenti che permettono ad ogni cittadino di conoscere, di essere al centro del mondo: possiamo scrivere il nostro blog, possiamo connetterci con chiunque, possiamo partecipare a progetti cooperativi… Si tratta di imparare ad usare gli strumenti. Si tratta di scegliere tra strumenti che ci rendono passivi e succubi e strumenti che ci rendono più liberi e consapevoli e solidali.
La rivoluzione digitale può essere intesa in questo modo: un nuovo territorio che ha del meraviglioso – ma sul quale dobbiamo imparare a muoverci.