E’ uscito il 29 gennaio 2021 -con il titolo Perché insegnare alle macchine a parlare e scrivere come noi? I pericoli– un mio articolo su Agenda Digitale.
Riprendo alcuni argomenti del mio libro Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, settembre 2020.
Il senso dell’articolo mi pare abbastanza bene sintetizzato nell’incipit, che riporto qui. (Nella versione pubblicata appare lievemente modificato):
“Pochi giorni fa mi è capitato di leggere l’articolo scientifico di cui è coautore un giovane brillante ricercatore, che conosco da quando era studente. Allora organizzava incontri sulla poetica dantesca e si interrogava sull’uso di strumenti digitali nella critica del testo. Mi piace supporre che, più ampiamente, si interrogasse a proposito di come poteva manifestarsi in modo più pieno la letteratura, se appoggiata non più su codice cartaceo, ma invece su codice digitale. Letteratura, ovvero umana produzione di narrazioni. Ma ora in questo articolo si occupa di una cosa diversa: come trasferire ad una macchina una tipica capacità umana: l’arte di scrivere in modo efficace, la tecnica tesa a costruire discorsi persuasivi.
Perché, mi chiedo, insegnare la retorica ad una macchina. Un’arte che noi umani conosciamo ed usiamo dagli albori della civiltà. Sono appassionato di nuove tecnologie e credo che strumenti digitali possano aiutarci a sviluppare più pienamente nostre capacità, anche la capacità retorica. Ma mi chiedo: da dove viene questa ansia di trasferire alle macchine le nostre capacità.”
Da questa premessa discendono domande, già esposte nelle Cinque Leggi dell’Era Digitale.
Perché preferiamo la macchina a noi stessi?
Perché accettiamo che tutto ciò che è importante sia scritto in un codice che noi esseri umani non siamo in grado di leggere?
Perché costruiamo macchine che ci ingannano, rendendoci impossibile distinguere se a parlarci è una macchina o un essere umano?
Perché non non ci dedichiamo invece a costruire macchine che accompagnano ogni essere umano nella libera conversazione con ogni altro essere umano?
L’ultima domanda, come si può ben capire, spiega la mia posizione.
Nell’articolo propongo quindi alcune affermazioni -anche in questo caso si tratta di argomenti esposti nelle Cinque Leggi dell’Era Digitale. Affermazioni che mi sembrano una buona base per una pubblica discussione.
Siccome l’innovazione appare inarrestabile, si sceglie di abbracciarla. Sembra che l’unica scelta possibile consista nello sforzarsi di vedere gli aspetti positivi. Credo al contrario che convenga continuare a porci domande. Anche se non abbiamo immediate risposte.
Dobbiamo fare i conti con le tecnologie e gli strumenti e le macchine che esistono. Ma non per questo dobbiamo rinunciare a criticarle. Nemmeno dobbiamo necessariamente usarle.
Non c’è da vergognarsi se a cose fatto, avendo sperimentato, ci si rende conto di rischi ed implicazioni e si rinuncia ad uno strumento, ad una strada. Possiamo dunque scegliere di sottostare alla legge di un progresso che ci spinge a guardare in avanti, solo in avanti.
La tecnologia digitale appare il collante ideale di una tecnocrazia, una élite sempre più lontana dai cittadini, ridotti a ignari sudditi.
La tecnologia digitale si fonda su codici che il cittadino non può né leggere né controllare.
La ‘politica digitale’ oggi necessaria si fonda su come porre rimedio a questa alienazione.
Nel ciclo di incontri Per una critica della politica digitale, organizzato presso la Casa della Cultura, questi argomenti sono stati oggetto di riflessione comune, insieme ad autorevoli portatori di diverse esperienze e professionalità. (Incontri in streaming ogni giovedì dalle 18 alle 2o, dal 21 gennaio al 25 febbraio 2021).
Poiché il pensiero umano si nutre di simboli e di metafore, penso che nel condurre un ragionamento su questi argomenti siano particolarmente utili narrazioni che ‘parlano della tecnica in modo non tecnico’. Propongo quindi nella chiusura dell’articolo -così come nel capitolo conclusivo delle Cinque Leggi– di immaginare il computer come bastone, bisaccia e scarpa vecchia.