Qualche estratto dal libro di Francesco Varanini ‘Marchionne non è il migliore dei manager possibili’, Guerini Next. E due video


Avrei potuto costruire il mio libro, che è una riflessione costruttiva sul ruolo del manager, prendendo altri manager a testimonianza di atteggiamenti e situazioni che meritano riflessione critica. Nel libro, prendo Marchionne a figura esemplare. Scelgo lui e non un altro perché Marchionne è diventato un mito, un luogo comune, un riferimento acriticamente citato. Parlando di Marchionne, si parla di ogni manager. E si parla, sopratutto, di come ogni manager si pone di fronte al proprio ruolo.

Estraggo dal libro qui di seguito, quasi a caso, alcune frasi che credo diano l’idea degli argomenti che sostengo. Aggiungo due video, registrati a margine di incontri dedicati al libro. Video registrato nel corso di una presentazione a Genova. Video registrato presso l’Università LIUC.

Estratti dal libro Francesco Varanini Marchionne non è il migliore dei manager possibili, Guerini Next

Forse, come dice qualcuno che l’ha conosciuto e l’ha frequentato da vicino, era solo un emigrato desideroso di riscatto, consapevole di essere stato baciato, ad un certo punto della propria vita, da una inattesa buona sorte. Forse era un uomo timido e insicuro, che per questo, per mitigare la sua solitudine, si mostrava avvolto in una corazza di decisionismo talvolta sprezzante.
Ma con l’andare del tempo ha allontanato i manager che ponevano domande e cercavano spazi di autonomia, ha spinto ad andarsene i manager entusiasti dell’automobile, legati al prodotto ed al servizio. Ha subordinato ogni altro obiettivo al mantenimento del proprio indiscusso comando, all’adattamento agli andamenti del mercato finanziario e agli umori della proprietà.

Non è certo privo di meriti. All’inizio della sua avventura in Fiat ha riportato le ruberie -gli interessi privati, gli abusi- sotto il livello di guardia. Ha imposto una autorità, il rispetto delle regole. Ha portato una ventata di cambiamento.
Eppure gli esiti della sua azione sono evidenti.
In sostanza, ha distrutto la Fiat: ha rinnegato il radicamento italiano, ha ridotto i livelli di occupazione più di quanto abbiano fatto i competitori, ha via smantellato le attività di ricerca e sviluppo. Ha svilito la vocazione manifatturiera dell’impresa ponendola al servizio di una famiglia e di speculatori finanziari. Ha svenduto il valore dei marchi: Fiat, Alfa Romeo, Lancia – il lasciare che venissero oscurati dal marchio Jeep è uno sberleffo alla storia, al nostro paese, al Made in Italy tutto.
A chi giustifica Marchionne ricordando il difficile contesto in cui ha operato, i condizionamenti esterni, le deficienze della politica italiana e delle organizzazioni dei lavoratori, l’opposizione di attori sociali avversi, possiamo ricordare che l’azione del manager è, per definizione, massimizzazione vincolata. I vincoli sono la condizione nella quale il manager è chiamato ad agire. Ma i vincoli possono essere intesi come pesi che non inibiscono il cammino, possono essere vissuti come stimoli a scoprire spazi di azione. Possiamo aspettarci che un manager, in presenza dei diversi vincoli, cerchi la propria strada, mettendo in campo le proprie competenze, la propria etica e la propria visione del mondo. Solo così la presenza del manager aggiunge veramente valore. Marchionne invece insegna a badare innanzitutto al proprio personale interesse, e poi insegna a piegarsi al servizio cieco di un unico portatore di interessi.
Quando plaudiamo alle gesta di Marchionne, dovremmo chiederci: che gloria c’è mai nell’aderire supinamente alle aspettative di una famiglia di rentiers, che gloria c’è nel soddisfare gli appetiti di lontani investitori istituzionali. Che stima dobbiamo provare per un manager che concede solo briciole agli altri portatori di interessi.
E alla fine, se siamo onesti con noi stessi, dovremmo anche prendere in considerazione la contraddizione tra la nostra ammirazione per Marchionne ed i reali risultati da lui ottenuti.

Estrarre valore
Il lessico con il quale l’Amministratore Delegato parla ai manager di primo livello è importante. Quel lessico, quelle parole chiave spiccano nei testi diffusioni dalla Direzione Comunicazione; restano fissate nei Power Point usati in riunioni ad ogni livello; si propagano via e-mail e poi anche nelle conversazioni informali in mensa e di fronte alla macchinetta del caffè.
L’espressione che primeggia su ogni altra è creare valore. Siamo qui per creare valore. Ogni Business Unit è chiamata a creare valore. Tutti contribuiamo a creare valore.
Poi, un bel giorno, qualcuno si accorge di uno scivolamento apparentemente lieve. A prima vista quasi insignificante. L’Amministratore Delegato non dice più creare valore. Ora dice: estrarre valore. In effetti, ormai, ogni messaggio diffuso dalla Direzione Comunicazione, e tutte le presentazioni Power Point portano scritto: estrarre valore. Ormai i dipendenti tutti parlano di estrarre valore.
Soffermiamoci sulla differenza. Creare valore è espressione che sintetizza il senso di ogni azienda, di ogni attività imprenditoriale. Creazione di valore è in fondo sinonimo di produzione. Producendo, trasformando materie prime in prodotti finiti, creo valore. I processi organizzativi hanno lo scopo di creare valore.
La creazione di valore riguarda e coinvolge tutti gli attori in gioco, tutti gli stakeholder. I detentori di quote di capitale, shareholder, gli investitori, i manager, i lavoratori, i clienti, i fornitori, la comunità locale dove l’impresa opera. L’intero sistema economico e sociale si nutre della creazione di valore generata dalle imprese.

Ma ecco lo scivolamento: l’Amministratore Delegato, figura apicale tra i manager, non dice più creare, ma estrarre. La differenza sembra minima, è però invece abissale.
Nel momento in cui il manager passa a parlare di estrazione, dichiara che non gli importa che l’azienda crei valore. Il manager estrattore di valore non considera suo compito creare, ma defraudare. Estrarre valore, infatti, vuol dire portar via dall’azienda, anno dopo anno, una quota del valore creato, sottraendolo agli investimenti e alla remunerazione degli stakeholder.
E’ questo il modo di essere manager di cui Marchionne è il campione. Non contano i clienti, non contano i lavoratori, non contano i fornitori, non conta la comunità sociale, non conta l’ambiente nel quale l’impresa opera. Non importa se così, succhiando il sangue all’azienda, se ne compromette la vita futura. Qualsiasi interesse è subordinato ad un solo obiettivo: garantire il rendimento promesso a speculatori finanziari. Gli stessi bilanci di esercizio sono in fondo costruiti a rovescio: il bilancio non è la fotografia del valore creato. Perché Marchionne, quale che siano gli andamenti del business e le condizioni del mercato, si è previamente impegnato a garantire il prelievo: ogni anno una quota di valore dovrà essere estratta dall’azienda, costi quello che costi. Estratta per metterla nelle tasche di una famiglia di rentiers, o per destinarla, lontano dall’azienda, dalla fabbrica, dalla produzione, a più redditizie speculazioni.

Anni fa organizzai un incontro di manager dell’area del Personale. Avevo proposto come tema La giusta remunerazione. Il Direttore del Personale di un importantissimo istituto bancario mi scrisse: “Non partecipo mai a tavole rotonde. Ma questa volta verrò, perché bisogna dirlo: si è superato il limite”.
Una frase di Marchionne: “Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia e coloro che operano in un libero mercato hanno anche l’obbligo di agire entro i limiti di ciò che una buona coscienza suggerisce”. Sembra concordare con quel Direttore del Personale; ma sono parole al vento. Nel 2018 la retribuzione di Marchionne ammontava a quasi 11 milioni di euro. In quello stesso anno la remunerazione annua di un operaio metalneccanico di FCA non superava i 20.000 euro. Marchionne guadagna 500 volte di più dei lavoratori della sua azienda.
Qual’è il limite? Forse, più che di limite della buona coscienza, si dovrebbe parlare di limite della decenza, del pudore. Marchionne avrebbe potuto almeno risparmiarci la sua lezioncina di etica. A differenza di lui, quel direttore del Personale, per fortuna, si scandalizzava ancora.
Forse è proprio questo il problema: quasi nessuno si scandalizza più. Anzi, i compensi di Marchionne alimentano il suo apprezzamento presso oggni ceto sociale: beato lui, si dice, invidiando. E’ comodo, ma non sufficiente, anche dire che la retribuzione di Marchionne non si discosta di molto da quella altri Chief Executive Officer.
Tutti abbiamo sotto gli occhi una realtà evidentissima. Peccato che talvolta, pur di non vederla, ci tappiamo gli occhi. Basta dare un’occhiata ai comunicati tramite i quali le imprese quotate in Borsa motivano le scelte dei manager e la loro remunerazione. Si legge nell’Annual Report per il 2018 presentato da FCA alla SEC, l’ente che vigila la Borsa americana. Quale manager può essere considerato “altamente qualificato”? Quali manager si vuole “attirare, motivare e trattenere”? Ecco la risposta: i manager che “si impegnano a svolgere i loro ruoli nell’interesse dei nostri azionisti”. FCA non è certo un’eccezione.
E’ noto anche che una parte preponderante della remunerazione dei manager è variabile: perché appunto è legata alla soddisfazione dell’unico portatore di interessi veramente preso in considerazione: l’azionista.
L’azionista -nella duplice veste di membro di una famiglia di perccettori di reddito per diritto ereditario, e di puri operatori del mercato finanziario- detta le regole alle imprese produttive. Ed esercita il suo potere attraverso la sua longa manus, il manager.

Questa è la realtà. Ogni manager dovrebbe interrogarsi a questo proposito. Il mito di Marchionne è pericoloso perché serve a diffondere uno stile, una dipendenza, un anche inconsapevole atteggiamento tra manager di ogni ambito e livello.
Servono certo regole di governo che definiscono compiti e mandati dei manager. E’ anche giusto che queste regole siano definite da norme di legge. Ma il punto è che queste regole, che dovrebbero favorire la creazione di valore, garantire il buon funzionamento dell’impresa e la sua durata del tempo, sono stabilite da un solo attore, detentore di interessi degli altri attori, e anche dannosi per il buon funzionamento dell’impresa stessa. Infatti, le regole di governo delle società per azioni quotate in Borsa finiscono per essere il modello sul quale sono esemplate le regole di ogni impresa, quale che sia la sua forma giuridica.

Sembra una via senza uscita. Sembra sia impossibile uscire da un paradossale circolo vizioso, che trova sintesi nella remunerazione di ogni Marchionne, di ogni manager. Essendo stabilita la remunerazione del manager dall’azionista, la retribuzione crescerà in funzione di come il manager fa l’interesse dell’azionista. Ma l’attenzione all’esclusivo interesse dell’azionista peggiora l’impresa. Il manager è remunerato in funzione di come danneggia l’impresa.
Le regole di Governance non sono che la conseguenza di questo principio. L’azionista difende il suo primato e decide, come propria esclusiva scelta, cosa concedere agli altri portatori di interessi.

Circola un’aria di rassegnazione. Molti manager sono consapevoli della situazione, ma dicono: non c’è niente da fare. Il neoliberismo ha vinto. La finanza speculativa ha vinto. Non possiamo fare altro che muoverci negli spazi concessi da un potere esterno all’impresa, imposto ad ognuno come regole di Governance.
Descrivo la situazione per dire che i manager possono, a partire dalla propria lucida consapevolezza e dalla propria etica, cambiare le cose, andare oltre. Marchionne, in fondo, ci insegna ad essere differenti da lui.