Nel 2007 è uscita, presso Marsilio, con il titolo Leggere per lavorare bene, la seconda raccolta derivata dalla rubrica Il Principe di Condé, da me tenuta sulla rivista Sviluppo & Organizzazione dal gennaio 1992 all’aprile 2006.. Sono uscite altre due raccolte: Romanzi per i manager, Marsilio, 2007; Il Principe di Condé, Este, 2010.
Per comprendere come funzionano le imprese, per scoprire in noi la stoffa del leader e del manager, per imparare a muoversi in un mercato del lavoro sempre più privo di regole – per tutto questo ci siamo abituati a leggere saggi e manuali. Ma nessun libro di management è veramente adatto allo scopo. Ci costringe a credere nei consigli un lontano guru: perché dovremmo fidarci di lui? Ci dice ‘come fare’, ma non ci commuove, non ci coinvolge.
Ben diversi i romanzi: emozionano e portano via lontano. Ma allo stesso tempo sostituiscono nel migliore dei modi qualsiasi manuale di management. Come questo libro dimostra, potete stare sicuri che tutto quello che scrive un consulente o un docente di strategia d’impresa l’aveva scritto prima, e meglio, un romanziere.
Dunque: ‘leggere per lavorare bene’.
C’’è innanzitutto il puro piacere della lettura, fonte di benessere. Ma poi,anche, leggendo romanzi, accettando di allontanarci dalle urgenze quotidiane per immergerci nella lettura, alimentiamo la nostra mente, sviluppiamo la nostra immaginazione. Lungi dall’essere una ‘perdita di tempo’, è un modo efficacissimo per accrescere le capacità più importanti: la creatività, l’orientamento all’innovazione, alla scoperta di nuovi mondi.
Il libro, riprendendo la formula di Romanzi per i manager, uscito nella stessa collana nel 2000, e del successivo Il Principe di Condé, Este, 2010, presenta brani commentati tratti da ventitré romanzi scelti con un doppio criterio. Classici indiscutibili –Goethe, Manzoni, Gogol, Poe, Pirandello– sono mischiati con opere solo apparentemente minori, poco note o malnote –Felisberto Hernández, Matilde Serao, Gombrowicz, D’Arzo–. Dunque una occasione per tornare su libri mai ripresi in meno dai tempi della scuola e per scoprire piccoli gioielli. Al contempo, una occasione per scoprire come ‘lavorare bene’ senza rinunciare ad essere noi stessi.
Qui trovate il Sommario del libro.
Qui trovate una recensione del libro apparsa sul Sole 24 Ore. E qui il commento di Luigi Covatta apparso sul Corriere della Sera.
Di seguito, potete leggere l’Introduzione.
INTRODUZIONE
Mi piace leggere romanzi. Come per molti della mia generazione, leggere romanzi è stata una esperienza infantile –Pinocchio, Gianburrasca, Cuore, Incompreso, Il piccolo lord, Salgari, Verne–, alla quale è succeduta una rottura. Al consueto effetto della scuola, che rende ostili libri che si sarebbero altrimenti avvicinati con diletto, per noi, da giovani adulti, si aggiungeva una peculiare situazione legata al momento storico: era d’obbligo in quegli anni sdegnare la narrativa e dedicarsi a saggi economico-politici. La lettura di romanzi, ricordo, era vissuta come una sottile trasgressione, della quale era meglio tacere. Trasgressione resa meno dura solo se l’opera godeva –almeno indirettamente: è il caso di Cent’anni di solitudine– di una qualche legittimazione ideologica.
Perciò ho letto pochi romanzi negli anni della formazione. E ho colmato il ritardo, per quanto mi è stato possibile, attorno ai trent’anni.
Lavoravo in una grande impresa, mi occupavo di formazione e di organizzazione aziendale. La lettura di romanzi –narrativa, fiction– aveva per me, in quel contesto, il consapevole senso di una autoterapia. Un modo per viaggiare lontano dalle assurdità che avevo sotto gli occhi. E allo stesso tempo un modo per leggere criticamente, in filigrana, attraverso l’occhio libero e creativo del narratore, quell’assurdo quotidiano.
Mi rivedo ora in un angoscioso momento di passaggio della mia incipiente carriera. Seduto ad una scrivania isolata e spoglia, senza nulla da fare, attendevo mi venisse assegnato un nuovo incarico. Sedavo l’ansia leggendo Dostoevskji, Delitto e Castigo. Il Direttore del Personale usciva dal suo ufficio e mi passava davanti. Mi guardava accigliato.
Cominciai a pensare allora al romanziere come a un cantastorie moderno. Un bardo, un rapsodo: ‘colui che cuce il canto’. Non dice magari niente di nuovo, ma sa connettere in un tessuto narrativo frasi colte al volo, emozioni, passioni, fatti, cronache, credenze. Il romanziere si prende tutte le libertà che sono negate allo storico, scienziato sociale, e anche allo stesso giornalista: costruisce un sistema verosimile senza essere schiavo della verità. Si permette, con vantaggio per il lettore, di ingigantire una aspetto in apparenza marginale, un dettaglio, illuminando così di una luce nuova un quadro che magari ci appariva già noto.
Per questo solo nei romanzi troviamo rappresentato in modo così efficace lo spirito del tempo – il clima intellettuale, morale e culturale che caratterizza un periodo storico, un modello economico, un sistema produttivo, un mercato. Per questo la lettura di romanzi è non solo piacevole, ma anche utile e istruttiva.
E’ così che mi sono ritrovato, all’inizio degli anni novanta, per la precisione nel gennaio del ’92, a curare su Sviluppo & Organizzazione, la più autorevole –credo– rivista italiana di management, una rubrica di ‘casi aziendali tratti dalla letteratura’. Un romanzo ogni due mesi, ottantasei romanzi letti e commentati, finché giusto un anno fa, nell’aprile del 2006, ho gettato la spugna. Non ho smesso di frequentare il romanzo, questo no. Ma ho sentito il bisogno di cambiare ritmo. L’obbligo, in qualche modo toglieva leggerezza alla lettura.
Ho pubblicato nel 2000 una prima raccolta, Romanzi per i manager. Ed ecco ora questa, Leggere per lavorare bene. La distanza tra i due titoli è per me ricca di significato. Sintetizza le riflessioni di questi anni.
Mi ero avvicinato al management con rispetto, e con tutte le insicurezze del neofita. Ho preso sul serio questo sapere specialistico; ci sono passato in mezzo, ho fatto le mie esperienze come dirigente e come amministratore delegato, come consulente e come formatore. Ma con il passare degli anni il management mi è venuto in uggia. Dei maestri del genere, se si possono chiamare tali, ho apprezzato veramente Peter Drucker, Elliot Jaques, Ikujiro Nonaka, pochi altri. Ho letto troppi libri tanto presuntuosi quanto vuoti. Quasi sempre mortalmente noiosi. E sono arrivato a una conclusione forse ovvia. Il management, la gestione, la direzione, la leadership, non esistono come sapere in sé.
Non a caso il romanziere, nella sua saggezza, colloca il manager al suo posto: ci parla di lui come di ogni altra persona al lavoro. Gestire, dirigere, organizzare: non è che un lavoro, o meglio, uno dei tanti aspetti del lavorare.
Leggere per lavorare bene, dunque. Innanzitutto, in senso stretto: questo libro può essere letto come un manuale. ‘Fare il capo’, muoversi nel contesto di una organizzazione, governare un progetto, scoprire il modo più adatto a noi per ‘fare carriera’, svolgere un compito, cercare un impiego: c’è sempre da imparare certo; ma servono a poco certi libri dove l’autore non racconta niente di sé, non si mette in gioco, e dall’alto di una cattedra che nessuno gli ha dato pretende di insegnarvi cosa è giusto per voi. Lasciate perdere quei libri. Leggete, piuttosto, un romanzo.
Leggere per lavorare bene, ancora, come modo per ‘accumulare ridondanza’. La nostra capacità di affrontare situazioni nuove e difficili non si alimenta con lo studio accanito, né basta il ricorso a esperienze passate. Il presente incerto può essere vissuto efficacemente solo se la nostra mente, lavorando senza costrizioni, sull’onda dell’emozione, porta alla luce qui ed ora le conoscenze che servono adesso. Conoscenze accumulate magari per caso, per piacere o per gioco. Leggere romanzi ci allena proprio a questo: vagare in mondi possibili, sognare, connettere tra di loro pensieri in apparenza lontani. Leggendo romanzi, insomma, immagazziniamo nel nostro baule mentale materiali di varia natura, apparentemente inutili. Ma è tutta roba buona, che ci tornerà utile quando meno ce lo aspettiamo.
Leggere per lavorare bene, infine, come modo per riflettere sulle fonti dello ‘stare bene’. E’ di moda –ragionando attorno al lavoro– parlare di benessere, ed è chiaro che se ne parla perché il clima di lavoro che alla grande maggioranza di noi è dato di vivere, è lontanissimo dal benessere. Mi chiedono spesso: ma come fai a parlare di lavoro come approssimazione alla felicità, sapendo che la moneta che circola oggi è soprattutto, se non solo, arroganza, disprezzo, offesa, disinteresse. Rispondo che so che le cose stanno così: mi ferisce ancora il ricordo di esperienze vissute; osservo a quale deserto emotivo siano ridotte le aziende che mi capita di visitare; ascolto le sofferte storie vissute da persone cui voglio bene. Eppure credo che, proprio di fronte a questa evidente realtà, ognuno di noi possa e debba cercare risposta nell’amare il proprio lavoro. C’è, in ogni lavoro, uno spazio di autonomia che nessun capo protervo, nessuna organizzazione assurda può violare. Occupando con dignità, con dedizione, con onestà, con decoro – occupando questo spazio, manteniamo viva l’autostima.
Non dobbiamo negarci la speranza che il nostro comportamento, quale che sia il ruolo che occupiamo, inneschi un qualche circolo virtuoso, e apra delle possibilità di cambiamento, favorisca un miglioramento. Talvolta accade.
Ma anche se il contesto resta ingiusto, anche se lo vediamo giorno dopo giorno cambiare in peggio, anche se quel capo, quel padrone, quella azienda non si meritano il nostro lavoro, anche allora vale la pena di lavorare bene. Lavorando bene nonostante tutto, lavoriamo su noi stessi, costruendo il personalissimo percorso che ci porta al benessere.
Freud accomunava l’amore e il lavoro, considerandole le fonti della vita. E’ singolare come poi ci sia abituati a considerare lontani i due ambiti. Ed è singolare come ci risulti ovvio pensare che i romanzi parlano di amore, e come ci suoni strano ammettere che i romanzi parlano anche di lavoro. A ben guardare, anzi, i migliori romanzi ci parlano sempre, allo stesso tempo, e in modo intrecciato, di amore e di lavoro. Ci parlano, in fondo di amore per il lavoro.
Non tutti i romanzi, certo. Perciò ho fatto delle scelte. Mi sono preso la libertà di escludere i libri dove il lavoro è fatto oggetto di scherno. I libri di autori che si vantano di essere fuggiti dal mondo del lavoro. E di autori che non essendo ancora riusciti a fuggire, deprecano la vita che stanno conducendo. Insomma, i romanzi di chi si chiama fuori, di chi scrive pretendendo di insegnare al manager cosa deve fare, da fuori, come grillo parlante, senza nulla sapere dei dolori del manager.
Ho raccolto romanzi che mi sono piaciuti. Ventidue opere scelte con un doppio criterio; classici indiscutibili –Goethe, Manzoni, Stendhal, Poe, Pirandello– mischiati con opere poco note o malnote –Felisberto Hernández, Matilde Serao, Gombrowicz, D’Arzo–.
Spero che queste pagine piacciano anche a voi e vi invitino a leggere (o a rileggere) le opere nella loro interezza. Ma spero innanzitutto che prendiate lo spunto dal mio gioco per fare altrettanto, andando oltre: spero che vi concediate la libertà di scegliere e di giudicare, lasciando in secondo piano i consigli di critici e di recensori di professione. Spero che dedichiate sempre più tempo a leggere romanzi. Spero che vi mettiate a scrivere il vostro romanzo. Non sarà tempo perso, sarà al contrario tempo guadagnato.