Il cambiamento organizzativo in una prospettiva etnografica. Ovvero: Qual’è la capitale della Germania?


Ho scritto un capitolo di un libro collettivo, quasi un manuale, dedicato al cambiamento organizzativo. “Il cambiamento organizzativo in una prospettiva etnografica”, sta in Il Cambiamento Organizzativo. Pratiche, competenze, politiche, a cura di Gianfranco Rebora, Este, I Quaderni di Sviluppo & Organizzazione, 22, 2016.
Tra gli altri autori: Gianfranco Rebora (Il cambiamento organizzativo in una visione integrata), Federico Butera (Il change management strutturale), Alberto De Toni (Auto-organizzazione come elemento chiave del cambiamento), Gianfranco Dioguardi (Il cambiamento organizzativo: considerazioni del terzo millennio).
Nel mio capitolo, osservando il cambiamento con lo sguardo dell’etnografo, ho osservato il punto di vista di chi subisce il cambiamento. Scrive Rebora nell’Introduzione: “Punto di vista inusuale nel campo del management, ma proprio per questo ricco di spunti originali”. “Ne risulta una illuminante interpretazione del ruolo degli agenti del cambiamento, considerati come ‘emissari del centro nelle periferie’ in modo che prescinde anche dalla figura professionale formalmente rivestita. L’atteggiamento di questi emissari si rivela condizionante e decisivo per dli esiti del cambiamento: servirebbe superare gli atteggiamenti da’ missionario’, che afferma una pretesa verità, e quelli di una relazione ‘collusiva’ per entrare nella logica di una relazione autentica”. Qui Rebora cita una mia frase: “Affinché il processo di cambiamento abbia qualche risultato, dobbiamo farci carico delle relazioni con chi vive in quella periferia”.
A sostegno di questo mio approccio, avrei potuto ovviamente citare autorevoli fonti, ma ho preferito non proporre una bibliografia – per dare maggior rilievo alle mia vera fonte: le voci di ‘abitanti delle periferie’ che ho cercato di ascoltare: abitanti dei villaggi nella provincia di Esmeraldas in Ecuador, conosciuti durante i miei anni di lavoro come etnografo (attorno alla metà degli Anni Settanta del secolo scordo), ma anche ‘abitatori di periferie aziendali’: operai, impiegati.
Il mio capitolo è quindi una raccolta di narrazioni. Propongo qui quella che mi sembra più significativa.

Terza narrazione: La responsabilità personale dell’agente del cambiamento
Anch’io sono visto come un Emissario del Centro. Anche a me vengono chieste medicine. Qualcuno chiede di poter prendere le medicine che uso per me. Sono miope, porto gli occhiali. Ma nessuno nel villaggio, anche se ha problemi di vista, porta gli occhiali. Si capirebbe il senso di occhiali da sole, ma -si dice- per sostituirli basta un cappellino con la visiera. Si crede dunque che i miei occhiali, con le lenti così perfettamente trasparenti, siano nient’altro che un segno di lusso.
Cerco per quanto possibile di non comportarmi come un missionario. Non ho nulla da insegnare, solo da imparare, dico.
Ma proprio per questo sono più misterioso, perché non faccio nulla, se non fare qualche domanda, ascoltare, osservare. Non dico messa, non misuro le terre, non insegno. Giro per il villaggio ostentando sempre la macchina fotografica e il registratore. Non fingo di essere invisibile, non fingo di far parte della tappezzeria. Uso solo un obiettivo cinquanta millimetri, nel tentativo di lasciare, anche sulla pellicola, una traccia di quel mondo il più possibile ‘obiettiva’. Avviso sempre di quando accendo il registratore. Ogni tanto, seduto con i maschi all’osteria del villaggio, qualcuno che sta raccontando interrompe il flusso della narrazione per dire: ‘Estoy grabando, estoy grabando’, ‘Sto registrando, sto registrando’. Mi capita, tornando al villaggio, di mostrare qualche foto fattta durante la visita precedente. Capita anche di ascoltare insieme qualche registrazione. Io non posso sapere, non posso capire cosa vuol dire, per una persona che non è mai stata fotografata, e che non ha mai registrato la propria voce, vedere la propria immagine riprodotta su quello specchio infedele che è un pezzo di carta, cosa vuol dire ascoltare la propria voce riprodotta da una macchina.
Sono anch’io, mio malgrado, per gli indigeni, un Emissario, un Esperto Totale del Mondo Moderno. Essendo considerato l’Esperto, il Testimone, qualsiasi cosa faccia o dica influisce sulla percezione dei nativi del Lontano Centro. Influisco mio malgrado sul successo dei Progetti di Cambiamento che il Lontano Centro intende proporre a quella Periferia del Mondo.
Mi accorgo presto che l’aspetto più critico, più delicato, del mio lavoro, non risiede nel mio osservare e nel mio raccontare. Risiede invece nel mio modo di interpretare il ruolo di Emissario del Lontano Centro.
Le motivazioni del Progetto del Centro possono essere ben argomentate, i materiali di comunicazione possono essere predisposti con cura. Ma resta sempre modo e sempre spazio, per chi vive nel proprio mondo Lontano dal Centro, per decodificare in modo aberrante, per riusare. Le lattine d’olio di Alianza para el Progreso arrivano al villaggio, nessun intento del Centro può impedire agli abitanti di considerare più importante la lattina dell’olio di arachidi. Nessuno può impedire agli abitanti del villaggio, negri -o meglio: morenos, come preferiscono definirsi-, così come agli indios Cayapas che vivevano lungo lo stesso fiume, di considerare del tutto irrilevanti non solo i libretti di istruzioni, ma anche i consigli di chi nel capoluogo di provincia ha venduto il motore fuoribordo. Chi vive lungo il fiume, possieda o non possieda un motore fuori bordo, sa come fare. Nessun meccanico professionista l’ha insegnato loro, ma sanno cambiare la farfalla del carburatore con la latta tratta da una lattina di tonno in scatola.
I messaggi veicolati dai mass media sono decodificati in modo coerente con la cultura: ognuno a casa sua capisce quel che vuole. Pensa l’abitante del villaggio: le partite di calcio mi interessano, quindi scelgo di capire, di comprendere le regole del gioco. Le strategie del Lontano Centro sono invece intese come minaccia, quindi mi difendo interpretandole a modo mio.
Ma anch’io sono lì. Non resto un solo giorno come il missionario. Non sono foderato di certezze come il missionario. Proprio per questo, mi accorgevo, posso influenzare la cultura. Posso favorire il Cambiamento o posso ritardarlo. Lo straniero presente sul luogo è preso per Esperto Totale. Il Lontano Mondo è conosciuto innanzitutto attraverso le parole calde dello straniero presente nel villaggio.
Nel ’77, ancora in Ecuador, lavoravo con i missionari, cercavo di ragionare con loro sui limiti impliciti nel loro modo di agire. Ho scritto un testo sul trovarsi ad essere Rappresentati del Centro nelle Periferie del mondo. Portavo in quel testo un esempio che allora mi sembrava, estremo, tirato per i capelli.
In quel villaggio, a Santo Domingo, mi chiedevano: ‘Quale è la capitale della Germania?’. Avrei potuto facilmente rispondere raccontando degli esiti della Seconda Guerra Mondiale, dicendo quindi che le Germanie sono due e le capitali due. Ma queste persone che mi chiedevano avevano ancora in mente la presenza, ancora in qualche modo attuale, dell’uomo cattivo chiamato Heil Hitler, che voleva uccidere tutti i negri, e d’altra parte sapevano anche dire, con precisissima cognizion di causa certi attrezzi per lavorare il legno prodotti in Germania erano molto migliori degli attrezzi prodotti in Giappone.
E io stavo parlando con queste persone. Mi rendevo conto di non aver nessun universale criterio di verità al quale appellarmi. Da quale punto di vista possiamo considerare capitali Bonn e Berlino Est? Non è forse vero che da un punto di vista storico e culturale e simbolico la capitale tedesca è per tutti i tedeschi Berlino? Mi chiedevo anche: non faccio forse danno a dire che le capitali sono due? Quando questa nozione si sarà consolidata nella cultura, magari la situazione sarà cambiata. Dopo molti dubbi mi sono risolto a dire: ‘La capitale della Germiania è Berlino’. Era molto difficile immaginare nel ’77 il Cambiamento che sarebbe avvenuto vent’anni dopo. Allora sapevo solo che il mio senso di responsabilità, la mia etica del ruolo, la relazione che si era creata tra me e quelle persone, mi imponevano di dire qualcosa che poteva essere considerato una menzogna.
(Qui potete vedere qualche mia fotografia del luogo dove è ambientata questa storia. Foto scattate tutte con obiettivo 50 millimetri. Con il consenso delle persone. Il teleobiettivo, così come il microfono nascosto di un registratore, sarebbero una rottura del patto con gli abitanti del ruolo. La fotografia o la registrazione sarebbero un furto).