Nel Viaggio letterario in America Latina dedico un certo numero di pagine a Gabriel García Márquez. Molti lettori, specie i recensori di professione, di fronte al libro di cinquecento pagine, si sono fermati esclusivamente su quelle cinquanta pagine dedicate dedicate allo scrittore colombiano. Non è questo che volevo.
Ma considero ancora attualissima la critica che ho ho rivolto a García Márquez. Ogni suo nuovo libro purtroppo la motiva ulteriormente.
García Márquez, autore negli anni sessanta e settanta di due grandi romanzi, Cent’anni di solitudine e L’autunno del patriarca, è divenuto in seguito un imitatore di se stesso. Il suo stile finisce per diventare una caricatura, indistinguibile dall’imitazione di epigoni e seguaci. Pressato dalla miopi aspettative del mercato editoriale, ma anche vittima della propria assenza di coraggio, ha cessato di scrivere a partire dalla propria storia e dalla propria cultura, per divenire il facile ambasciatore di un esotismo da cartolina, facile merce per lettori europei.
Ricordo che, intervistato dall’emittente radio colombiana Caracol, mi chiesero se “criticavo García Márquez per diventare famoso”. Cercai di dire che ero mosso solo dall’amore deluso. Cercai anche di aggiungere che questo García Márquez è umiliante per chi ha a cuore la cultura e la letteratura colombiana, ed ispanoamericana in generale.
Ricordo anche una volta dell’incontro con uno scrittore colombiano, che era in viaggio in Italia. Ero preoccupato, mi ero preparato a rispondere alle critiche per aver messo in discussione il Mostro Sacro. Ma invece mi sentii ringraziare. “Sei stato coraggioso, hai fatto quello che noi non possiamo fare”. Chi vive nel mondo letterario ed editoriale, in particolare in Colombia, non può permettersi di criticare García Márquez, o non gli conviene.
La mia posizione di critico indipendente, che non vive di questo lavoro, mi permette di dire. Le opinioni non lusinghiere che ho espresso a proposito di Italo Calvino e di Alessandro Baricco sono figlie di questo stesso approccio.