Di Calvino tra cent’anni non si ricorderà più nessuno


Il testo che trovate qui sotto l’ho scritto probabilmente nel 2002. L’avevo pubblicato in quell’anno -con lo stesso titolo che ripropongo ora- sul sito Eserèsi, di cui racconto qui la storiaRipubblico così come pubblicai allora, senza modifica. Non ho cambiato opinione.
E’ giusto ricordare che il mio socio nel progetto
Eserèsi, Enrico Pieruccini, aveva una opinione ben diversa dalla mia. Pubblicò quindi su Esèresi un articolo nel quale, per quanto ricordo, mostrava meriti di Calvino che la mia vena polemica mi ha spinto a ignorare.
Per dire del mio modo  di intendere la critica letteraria, rimando alla narrazione delle vicende del mio
Viaggio letterario in America Latina.  O forse basta la frase con la quale un altro famoso scrittore, Guillermo Cabrera Infante, descrive il mio approccio.
Devo qui anche ricordare un altro mio scritto a proposito di Calvino –Fiction Factory, romanzi automatici, aziende invisibili, autori deboli– dove in modo più narrativo si spiega il mio punto di vista. Anche in questo caso la mia posizione è un sincero confronto con quella di un altro amico, Marco Minghetti, il cui giudizio su Calvino è molto diverso dal mio.

 

italo-calvino

 

Calvino è un autore ‘da esportazione’. In quanto tale fa danno. Questa è una colpa che ritengo risalga, in gran parte, a consapevoli atteggiamenti del Nostro. Ma anche se così non fosse, oggettivamente, occupando troppo spazio su pagine di giornali, nella mente dei lettori, danneggia altri autori altrettanto, o più meritevoli. Sotto questo punto di vista Calvino va insieme a Eco, a Tabucchi, a Baricco. La fama di questi autori, legata a best seller, e anche conseguente a una attenta cura della propria immagine, toglie spazio a Gadda, a Ortese, a Landolfi, a Arbasino, a Busi, a Tondelli. E naturalmente potrei continuare.
E’ frustrante parlare con lettori stranieri e dover faticare per fare capire che forse, oltre a Calvino, c’è qualche altro autore che vale la pena di leggere. Ti prendono per uno che spara contro la patria letteraria. Ti prendono per uno che vuol farsi bello facendo il bastian contrario. Ma c’è qualcosa di più profondo: è seccante dover mettere in discussione rassicuranti valori acquisiti. Come, ho sempre saputo che Calvino è il migliore, e questo viene qui a dirmi che non è vero?
Questo, ho detto, vale con i lettori stranieri – e in questo caso rispetto e cerco di spiegare. Ma un lettore italiano, che ha avuto acceso a più fonti, che ha avuto modo di leggere e confrontare, lo rispetto di meno. Penso che se continua a pensare che Calvino è il massimo, è solo per pigrizia, per ingiustificabile miopia. E dico: non autocensuratevi, non reprimete la vostra curiosità. Cercate cose nuove. Non credete troppo ai critici. Fidatevi delle vostre intuizioni. Diffidate di libri presentati come ‘nuova opera dell’autore di…’. Se uno ha scritto un bel libro, dovremmo forse leggere tutti i suoi libri?
Così questa modesta critica di Calvino è una critica di Calvino, nello specifico, ma è anche in generale una critica degli autori vacca sacra, degli autori celebrati dalla critica, degli autori-semprepresenti-sulle-pagine-culturali, degli autori-dei-quali-non-si-può-parlar-male.

C’è, come per quasi ogni autore, un Calvino buono e un Calvino cattivo.

Il Calvino buono, per ingenuità, è il Calvino dei Sentieri dei nidi di ragno. Letteratura di genere: negli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale, ma direi fino agli anni sessanta, scrivere sulla Resistenza era di moda, ‘politicamente corretto’, necessario per stare nel giro e per fare carriera. Calvino, come sempre farà, si adegua. Ma qui si vede l’autore che si forma e che timidamente mostra se stesso, si lascia trasparire, e questo è apprezzabile e anche a tratti commovente. C’è un bisogno che ci muove alla scrittura, un bisogno che affonda le radici nella nostra soggettività. Niente di più e di meglio si può dare al lettore che lasciar trasparire questa urgenza e questa trepidazione. ‘Trepidazione’: ‘timore’, ‘apprensione’, ‘inquietudine’. L’autore giovane, il primo Calvino, è trepidante, per questo in qualche modo, magari involontariamente commovente: per come non riesce a fare a meno di mostrarsi come è veramente, per come non riesce a evitare di mostrarsi. Ricordiamo questo periodo con rimpianto. Presto Calvino, funzionario culturale, intellettuale organico, imparerà a nascondersi, a mostrare di sé solo quello che –nella sua conformistica visione del mondo– di un autore maturo e di successo e politicamente corretto deve apparire. Questo autore si manifesta, non insegna. Quale distanza dall’autore che presto Calvino diventerà, maestro non richiesto, censore.

Il Calvino buono, ancora, è il Calvino della Giornata di uno scrutatore. Calvino è un intellettuale di sinistra che, avendo avuto l’occasione ed i giusti contatti per entrare nel giro delle case editrici che contano (soprattutto una, naturalmente, Einaudi), poté permettersi di imporsi al mondo come narratore. Ma del narratore ha in scarso grado le doti. E’ un ragionatore acuto, un attento organizzatore di pensieri. Non ha la fluidità dell’affabulatore, non ha la libertà di carattere di chi sa addentrarsi nell’interno oceano straniero della psiche. E’ un politico prestato alla narrativa. In quanto tale ci parla nella Giornata. E’ fedele alla linea, ma è capace di vedere i risvolti del ruolo. E –forse perché soffre dei limiti del ruolo autoimposto– riesce a portare alla luce contraddizioni e ambiguità. Come questi sempre nei casi nella buona narrativa, questo succede perché l’autore, di fronte a una materia troppo difficile da maneggiare, di fronte ai temi che troppo da vicino lo toccano, lascia trasparire quello che non vorrebbe dire, o che non si rende conto di dire.
Questa caduta dell’autocontrollo, benvenuta, è rarissima nel Nostro: sempre così attento ad esprimersi stando nelle righe, comme il faut, come ci si aspetta da un Grande Autore. Qui il controllo, credo, sfugge –mi ripeto per esser chiaro– perché è in gioco la vera identità di Calvino. Quella del politico mascherato da scrittore. Se parlasse d’amore o d’avventura la proverbiale freddezza dell’autore terrebbe. Qui la materia è troppo calda, troppo legata alla identità del soggetto– qualcosa per fortuna scappa. (Non è un caso, è anzi una circostanza chiave che spiega molto di Calvino, non solo di questa opera, il fatto che la Giornata è scritta nel 1953 e pubblicata solo dieci anni dopo).

Il Calvino buono, per maturità, e relativa originalità, è il Calvino del Barone Rampante, magari anche del Cavaliere inesistente e del Visconte dimezzato. Forse anche delle Cosmicomiche. E se vogliamo di Marcovaldo. Questa è ancora letteratura di genere, niente di veramente nuovo: conte philosophique, apologo morale, uso retorico di risorse fiabesche. Un lavoro in fondo freddo e cerebrale. E comunque pagine dove l’autore costruisce un mondo possibile – che non mi interessa, non mi commuove, non mi dice niente, ma di cui riconosco l’intelligente, professionale architettura.
E soprattutto, cosa rara in Calvino, qui almeno si coglie un qualche mistero. Un qualcosa di non detto, indicibile, che spinge l’autore a scrivere questo e non altro, un qualcosa che si intuisce legato all’autobiografia. A motivazioni profonde. Perché l’autobiografia può e deve essere trasfigurata; ma non si può essere narratori se si prendono le distanze da se stessi. (Qualcuno ha notato che grande è in questa fase creativa del Nostro l’influenza di Elsa De’ Giorgi. E che in particolare Il Cavaliere inesistente è Contini Bonaccossi, il marito di Elsa sparito nel nulla. Del riferimento storico può non importarci nulla; ma salviamo le pagine per il dolore; per la nascosta verità).

Il Calvino buono, l’ultimo, è quello delle Lezioni americane. Esercizietti saggistici non originali, ben costruiti, frutto di buone letture e di buona capacità di sintesi. Queste sono le cose che Calvino sa fare, rendiamogliene merito. Senza esagerare. Molto del successo è dovuto al fatto che si tratta di saggi facili da capire. Corrispondenti ad un senso comune. In qualche misura consolatori. Ecco cosa manca a questo Calvino saggista. Manca di vero coinvolgimento, è privo del coraggio della visione. Dell’indignazione profetica. E’ algido, privo di com-passione, frenato da una rigidità caratteriale contrabbandata per razionalità.
Se si guarda ad una lettura critica del presente e a un tentativo di intravedere un futuro, mi dicono di più parole confuse, oracolari, che rinunciano ad essere lucide ma che trasmettono il senso della complessità e della minaccia.

E ora, spazio al cattivo Calvino.

Cattivo è l’autore celebrato che cerebralmente esplora generi di moda e d’avanguardia. Intendo l’autore delle Città invisibili, di Castello dei destini incrociati, di Se una notte d’inverno un viaggiator, anche di Palomar.
Se uno ha letto Borges, e anche se non lo ha letto, dovrebbe vergognarsi a mettere in pagina aridi e faticosi esercizi come le Città invisibili, e i Castello dei destini incrociati. L’ho già scritto, e lo ripeto. Tra cent’anni nessuno si ricorderà di Calvino. E nemmeno di Umberto Eco. Forse in qualche puntigliosa storia della letteratura saranno citati questi scrittori di serie B, curiosamente tanto celebrati in vita, modesti epigoni e imitatori di Borges. L’autore delle Lezioni americane, oltretutto, dovrebbe sapere che la maestria sta nella brevità, nella velocità. Borges costruisce macchine meravigliose, ne mostra la complessa meccanica, in poche pagine secche e autoironiche. Calvino allunga il brodo e riempie pagine che restano vuote, nelle quali non c’è niente da leggere se non ammiccamenti ai recensori. Pagine sottili e insidiose, che impongono un comando al lettore ‘aggiornato’: sono il maestro, sono l’autore celebrato, trova un difetto in questo testo, trova un motivo per sentirti gratificato per avermi letto. Incensami. Portami in palma di mano.
Eppure, ad ogni evidenza. Sono pagine di un autore in crisi di ispirazione. Un autore che ha successo perché corrisponde allo stereotipo dell’autore di successo. Ma che non trasmette nessuna emozione al lettore. Alzi una mano il lettore che ha trovato veramente piacevole, o conturbante, o comunque stimolante andare oltre le prime trenta pagine di Se un notte d’inverno.
Capisco che un autore in crisi di ispirazione ricorra alla meccanica combinatoria, alla costruzione del testo fondata su risorse strutturalistiche o anche enigmistiche. Ma Calvino dovrebbe andare a nascondersi, perché amici suoi, contemporanei, anche in questo gli hanno dato la paga. Volete giochi di scrittura e riscrittura su un palinsesto dato? Queneau è bello e servito. Volete la costruzione di un romanzo come mondo possibile? Eccovi La vie, mode d’emploi di Perec. Volete un testo che in realtà è un ipertesto, dove l’autore crea e mette a disposizione del lettore gli strumenti per contribuire alla creazione letteraria? Prima e meglio di Calvino c’era arrivato Cortázar con Rayuela (Il gioco del mondo).
Badate, non parlo di gente lontana da lui, parlo di persone che vivevano accanto a Calvino, amici o conoscenti, appartenenti allo stesso movimento di avanguardia: Oulipo, allo stesso mondo gravitante attorno alle case editrici, centrato su Parigi. Calvino li ha frequentati, ha letto i loro libri, ma non ha saputo cogliere il loro lavoro come stimolo per scrivere qualcosa di suo, qualcosa che non fosse una variazione sul tema, l’esercizio su un canone. Quenau, Perec, Cortázar: Calvino li ha solo imitati, producendo testi meno ricchi, meno emozionanti, meno importanti. Testi, però, di facile presa sul pubblico e sulla critica. Lettori, non cadete nel gioco.

Cattivo autore, infine, forse il peggiore, è il Calvino esponente di una cultura di sinistra che vuole imporre la sua egemonia sulla società delle lettere. Il Gatekeeper che nel retrobottega della Einaudi e di altre case editrice, e attraverso le terze pagine dei quotidiani e il complicato tessuto di rapporti che legano ‘le persone che contano’, decide quello che si deve e quello che non si deve pubblicare in Italia. In base a un progetto politico, ideologico, al quale lo stesso gusto estetico è asservito. Un caso solo, per esempio. Ditemi perché si doveva sconsigliare la pubblicazione del Roi des aulnes (il Re degli ontani) di Tournier. Perché non è abbastanza antifascista? Perché non è abbastanza maschilista? La verità è che i libri che scavano troppo, che lavorano sul mondo interiore, sul torbido che è in noi e nel mondo, Calvino non li poteva vedere.
Schede e schede riempite, giudizi cauti, partiti presi sostenuti e alimentati come tela di ragno.
Che differenza tra le sue schede di lettura causidiche e ferme su dettagli, legate a chiavi ideologiche, il libro in esame sempre incasellato in uno schema, che differenza tra queste schede e quelle liberrime di Bobi Bazlen, trasudanti entusiasmi e anche riprovazioni, attente anche alle ragioni del mercato ma sempre con il libro al centro, il libro che si impone al lettore come novità irredimibile, novità che il lettore vero accetta con fervido abbandono.
Fuor di ogni dubbio, Calvino è stato un censore. Lo è stato, dobbiamo riconoscere, con coerenza – perché censurava gli altri così come censurava se stesso. Calvino costruisce la sua meschina biblioteca ideale con i libri degli altri così come costruisce la propria opera. Consiglia di non pubblicare certi libri proprio così come si nega di essere l’autore che avrebbe potuto essere. Se avesse accettato di non difendersi dalle emozioni, se avesse saputo guardarsi dentro, se non avesse avuto bisogno della maschera di un ruolo.