Il famoso romanzo di Gabriel García Márquez è stato pubblicato cinquant’anni fa, nel 1967, dalla Editorial Sudamericana di Buenos Aires. Pubblicato in sordina: nessuno, né l’autore né i suoi amici né i critici potevano immaginarsi l’immediato, planetario successo.
L’anno dopo Cent’anni di solitudine esce in italiano presso Feltrinelli. E’ la prima traduzione in lingua straniera.
Al romanzo è dedicata ora la storia di copertina del Venerdì di Repubblica (numero 1525, 9 giugno 2017). Scrive Bruno Arpaia nell’articolo intitolato “L’Eldorado della Solitudine”:
“Oggi, dopo mezzo secolo di solitudine, la Mondadori finalmente ci ripropone quel fortunato romanzo nella nuova traduzione di Ilde Carmignani. Ce n’era davvero bisogno, perché il primo traduttore, un grande come Enrico Cicogna, non si era saputo sottrarre del tutto alla tentazione di compiacersi dell’aura esotizzante che accompagnava quegli scrittori venuti dall’altra parte del Mar Oceano.
Da adesso, anche per noi italiani, Cent’anni di solitudine, sfrondato da inesistenti “barocchismi”, sarà un romanzo meno classificabile sotto la pigra etichetta di “realismo magico” che l’ha bollato a vita, e García Márquez sarà meno inquadrabile in quell’immagine di scrittore “fantastico” ed esotico dalla quale per anni ha vanamente tentato di liberarsi. Perché non è lui responsabile del nostro desiderio di addomesticare l’alteritá del Nuovo Continente e di trasformarlo in un mondo inoffensivo di sognatori a spasso tra prodigi, banani e mangrovie. Lui si è limitato a a scrivere romanzi a loro modo realistici, intrisi di storia e di potere…”
‘Barocchismi’, ‘aura esotizzante’, ‘mondo inoffensivo di sognatori a spasso tra prodigi, banani e mangrovie’. Della difettosa traduzione di Cent’anni di solitudine avevo scritto, con maggior ampiezza e precisione, diciannove anni fa nel capitolo iniziale del mio Viaggio letterario in America Latina. (Marsilio, 1998; traduzione in spagnolo El Acantilado, 2000). Trascrivo qui una pagina:
“Cien años de soledad. Uscì in America Latina nel maggio del 1967, mentre Che Guevara combatteva in Bolivia. Giunse non a caso nelle librerie italiane – prima traduzione
di tutto il mondo – nel maggio del 1968. (…)
Macondo era il luogo dell’avventura, di una avventura possibile. Era la risposta ad un bisogno profondo. Tanto pressante da influenzare anche il grafico e il traduttore dell’edizione italiana: anche loro desideravano questo luogo lontano. Si ricordi la copertina per l’edizione economica, uscita nel ’73. Una copertina dove c’era tutto: i resti di un galeone spagnolo misteriosamente immersi nella foresta, un cielo di un azzurro intenso e tutte le tonalità del verde di un Tropico come lo si può immaginare da lontano.8 Ed anche il traduttore
aggiunse del suo. Il testo già di per sé ci parlava di cose e di luoghi inusitati, ci trasportava in un mondo di sogno dove le piogge non finiscono mai, si vede crescere l’erba e i figli sono anche i nonni di se stessi. Ma la traduzione incrementava l’effetto. La notizia della scomparsa di Melquíades è fonte di doloroso sbalordimento per José Arcadio Buendía; il contesto magico della rivelazione è già fin troppo calcato dall’autore: “lo zingaro lo avvolse nella atmosfera attonita del suo sguardo, prima di convertirsi in una pozzanghera di catrame
pestilente e fumante sulla quale aleggiò sospesa la sonorità della risposta: ‘Melquíades è morto’.” Eppure anche qui il traduttore aggiunge il suo rinforzo. Dove il testo recita: “en efecto Melquíades había sucumbido a las fiebres en los médanos de Singapur”, leggiamo in traduzione “effettivamente Melquíades era stato stroncato dalle febbri nelle sirti di Singapore”. Trascinati dalla lettura, non ci soffermiamo a riflettere; ma cosa saranno mai le sirti? “Sirti” in italiano è espressione letteraria ben lontana dal parlar comune, mentre Márquez usava in questo caso una parola normalissima, quotidiana. Médanos poteva e doveva essere semplicemente tradotto con secche. Il caro Melquíades era morto “tra le secche di Singapore”; così si sarebbe anche capito subito perché “il suo corpo era stato gettato nel luogo più profondo del mare di Giava”.
Ma ciò che ad altri avremmo rimproverato, l’oscurità, l’apparente Ma ciò che ad altri avremmo rimproverato, l’oscurità, l’apparente assenza di senso, in Márquez non suona male. Nei suoi libri gli eccessi e gli stessi errori sono sempre riscattati, perché rispondono anch’essi alla nostra aspettativa: sono pagine che disegnano per noi un misto di libertà, di passionalità, di follia, di gioia di vivere; tutte
quelle cose di cui la vita quotidiana ci priva.
Trent’anni fa avevamo bisogno di questo, di un mondo immaginario, fuori dalle regole. Márquez seppe regalarcelo.”
Nelle note 9 e 10 aggiungo dettagli ed esempi a proposito della traduzione di Cicogna, dettagli non irrilevanti, che non appaiono nell’articolo di Arpaia.
“Così, anche, per esempio, si traduce las nuestes (García Márquez 1967, p.28) con le osti (García Márquez 1968, p.32). Nei dizionari italiani troviamo sì oste per “esercito”, ma solo come voce antiquata e letteraria. Perché non tradurre semplicemente truppe? E dove si dice che Macondo è un paese “que se hundía sin remedio en el tremedal del olvido” (García Márquez 1967, p.48) si traduce “un paese che stava affondando senza rimedio nell’aggallato della dimenticanza” (García Márquez 1968, p. 56). Mentre tremedal è parola di uso comune, che potremmo facilmente tradurre con terreno paludoso, terreno acquitrinoso, pantano, chi in italiano direbbe aggallato?
Eppure queste traduzioni, proprio per il loro valore aggiunto di esotismo, hanno contribuito in modo significativo al consolidarsi di un genere letterario: una letteratura come mezzo per fuggire a Macondo. Un genere che è entrato nelle aspettative non solo dei lettori finali, ma anche di critici e recensori (che non di rado conoscono gli scrittori latinoamericani solo attraverso le traduzioni). Un genere che ha finito per influenzare in qualche modo gli stessi autori – che, a partire da Márquez, si sono visti richiedere dal mercato internazionale romanzi che apparissero, anche nel lessico, inusitati e strani.
Bisogna anche dire che forse Enrico Cicogna non era proprio quel grande traduttore che Bruno Arpaia celebra.
Ricorda Valerio Riva: “io stesso avevo affidato a Cicogna la traduzione di Cent’anni di solitudine, ma mi ero sbagliato: il risultato era stato a dir poco deprimente. Lo dovemmo ritradurre interamente, mot à mot, io e Marcelo Ravoni, un altro argentino che stava ancora cercando in Italia una sua collocazione. Fu un lavoro massacrante, di quelli che si ricordano con sgomento” [Valerio Riva, “Autore e traduttore”, in José Lezama Lima, Paradiso, traduzione di Valerio Riva, 1990, p. LXI]. Enrico Cicogna, allontanatosi dalla nobile e ricca famiglia –García Márquez [“Los pobres traductores buenos”, 21 luglio 1982, poi in Taccuino di cinque anni. 1980-1984, Mondadori 1994] scrive di lui parlando del conte Enrico Cicogna– aveva viaggiato in America Latina e viveva facendo il traduttore. Valerio Riva, che in quegli anni era di casa a Città del Messico e all’Avana, curò per conto di Feltrinelli le tempestive edizioni italiane di Fuentes, Vargas Llosa, Sábato, Donoso, Guimarães Rosa. Già nel 1965 aveva acquistato i diritti del romanzo che Márquez stava scrivendo, che sarebbe stato Cent’anni di solitudine.”
Già pubblicato il mio libro, ebbi modo di conoscere personalmente Valerio Riva. Lui, che aveva vissuto quei momenti, trovò la mia narrazione vicina ai fatti, e scrisse un ampio articolo a proposito del Viaggio letterario su Panorama. Anni prima, attorno all’anno ’90 avevo conosciuto anche Marcelo Ravoni. Ero Direttore Generale della casa editrice del settimanale Cuore. Riva ricorda che nel ’68 Ravoni stava cercando la sua collocazione in Italia: l’aveva poi trovata come agente di illustratori e fumettisti. Conobbi bene Ravoni e sua moglie perché erano agenti di Altan. Non avevo motivo di supporre, allora, che fosse uno dei veri autori della traduzione di Cent’anni di solitudine – che in quegli anni stavo studiando. Rimpiango ancora di non aver conversato con lui a questo proposito.
Mi resta una curiosità. Se la traduzione rivista parola per parola da Riva e da Raboni appare ancora fastidiosamente farcita di inutili esotismi, immagino lo fosse ben di più la traduzione di Cicogna.
Sono tornato ad occuparmi di Cicogna e delle traduzioni dei romanzi ispanoamericani di quegli anni in un testo –potete leggerne qui una prima versione– che entrerà a far parte di un mio prossimo libro.
(Scritto il 20 giugno 2017, rivisto il 2 dicembre 2020)