Non ‘congedo’ o ‘commiato’, ma ‘eredità’. Ultima mia rubrica su ‘Sviluppo & Organizzazione’ dopo trent’anni


Ho iniziato a scrivere sulla rivista Sviluppo & Organizzazione sul numero di gennaio-febbraio 1992.

La testata di Sviluppo & Organizzazione nel 1992

Aprivo allora la rubrica Il principe di Condé. Sotto il titolo Nascita di una economia moderna commentavo il romanzo Le illusioni perdute di Honoré de Balzac.

Trent’anni fa. Da allora su ogni numero della rivista è apparsa una mia rubrica. Dal gennaio 1992 al febbraio 2006, nella rubrica Il principe di Condé ho presentato, 86 romanzi. Dal 2006 al gennaio 2023, 93 parole del manager.

Chiudo ora la collaborazione, sul numero di gennaio-febbraio 2023

con una rubrica dedicata alla parola Eredità

La rubrica su Sviluppo & Organizzazione è stata il punto di partenza da cui sono nati i miei libri Romanzi per i manager, Leggere per lavorare bene, Il Principe di Condé, Le parole del manager, Nuove parole del manager. Sono orgoglioso di aver così mantenuto aperto, in tutti questi anni, un ponte tra la la cultura umanistica e la letteratura strettamente dedicata a management e organizzazione. 

La parola eredità, il cui senso è più sottile di quanto appaia a prima vista, non è scelta a caso.

Riporto qui di seguito la rubrica. 

Eredità
di Francesco Varanini

Potrei proporre la parola congedo, o commiato. Dal numero gennaio-febbraio 1992 al numero marzo-aprile 2006, ho presentato su queste pagine, nella rubrica Il Principe di Condé, 86 romanzi. Dal maggio-giugno 2006 a questo numero ho tenuto la rubrica Parole del Manager: ai romanzi si sono aggiunte così 101 parole. Ora lascio. Questa è l’ultima rubrica.
Per 30 anni, questo che inizia è il trentunesimo, spero di aver offerto ai lettori di Sviluppo & Organizzazione stimoli per guardare oltre l’apparenza. Analogie e approfondimenti laterali come invito a cercare fonti non consuete, e a dar valore al proprio pensiero. Invito a guardare oltre i luoghi comuni e le frasi fatte che lungo l’arco di questi tre decenni hanno vissuto il loro tempo di fallace gloria.
Mi fermo qui, sul primo numero dell’anno nuovo, così come avevo iniziato con l’anno nuovo 1992. Potrei lasciarvi, dicevo, parlando di congedo o commiato. Accomuno le due parole perché discendono da una stessa radice. Il significato di ‘conclusione di un incontro’, ‘saluto’, si è sovrapposto ad una originaria idea che parla del ‘passare per una data via’. Il senso si chiarisce ulteriormente ricordando altre due parole che discendono dalla stessa radice: migrazione e mutamento.
Dunque il commiato non è solo un modo di ricordare il passato. E’ un modo, invece, di legare il passato, la tradizione, all’innovazione ed al futuro. Ma ho in mente ora una parola che mi pare più pertinente ed impegnativa: eredità.
Il latino heres, ‘erede’, discende da due radici indoeuropee. La radice ghero-, che sta per ‘vuoto’; e la radice verbale ed/od che significa ‘entrare in possesso’.
Nel tempo si consolida l’accezione per cui l’erede è ‘colui che entra in possesso di ciò che è privo di padrone’, ma l’accezione più profonda e originaria resta quella che vede l’erede come ‘colui che entra in possesso di un vuoto’.
Il concetto di vuoto dà da pensare. Nel più comune modo di intendere, l’eredità appare non un ‘vuoto’, ma proprio all’opposto un ‘pieno’. Un asset materiale o immateriale che passa da genitori a figli. Un peso spesso troppo pensante per chi ne entra in possesso: il genitore tramite l’eredità indirizza la vita del figlio; il figlio è costretto a farsi carico di scelte del padre, o invitato dalle circostanze a ripetere la vita, la carriera del padre. L’eredità così finisce per togliere libertà e gravare sulle spalle.
Invece, il vuoto. L’eredità come non-avere, come mancanza. L’essere erede come essere vuoto.
Noi umani cerchiamo costantemente di aggrapparci a un punto stabile, di afferrarci a pensieri, sentimenti e concetti come se essi fossero un solido fondamento.
L’eredità sta quindi forse come momento di passaggio.
Quando muore la persona cara, quando scompare dalla nostra scena qualcuno che anche nel lavoro ci ha accompagnato, magari guidato, protetto, abitudini vengono troncate, l’immagine di noi stessi è costretta a cambiare. E’ allora che, nel vuoto di sicurezze che sono retaggi del passato, la nostra naturale attitudine a conoscere, a maturare esperienze può finalmente emergere. E soprattutto: è allora che nel vuoto lasciato da chi occupava uno spazio, da chi copriva un ruolo, ci troviamo invitati, spinti, ad essere noi stessi.
Con la cautela di occidentali che con difficoltà tentano di intendere il senso di culture differenti,
possiamo ricordare il sanscrito sunyata, Traduciamo normalmente vacuità, emptiness. Il vuoto degli esseri e delle cose, l’inesistenza di qualsiasi carattere fisso e immutabile. Ogni cosa dipende dalle altre, ogni persona è connessa. Tutto è per natura interdipendente. In questo spazio è possibile cercare e trovare la propria dimensione. In questo silenzio possiamo cercare la nostra voce.
E ancora in sanscrito, parole direttamente connesse al latino heres. Reknas: ‘oggetto di valore’, ‘ricchezza’. Rikta: ‘vuoto’, ‘cavo’. Reku: ‘vuoto’, ‘abbandonato’, ‘deserto’. Recaka: ‘che purifica’, ‘che aiuta a liberarsi’. E quindi riktha: ‘proprietà lasciata alla morte’, ‘eredità’; e rikthin: ‘erede’.
E’ significativo l’accostamento tra riconoscimento del valore, invito a liberarsene, accettazione del vuoto.
Nel concetto di eredità, insomma, l’accento non è posto né su di chi esce di scena, né sul suo lascito, ma sull’agire futuro, oggi ignoto, di nuovi attori che entrano in scena.
Immaginate dunque questa pagina come vuota. Qualcuno dal prossimo numero colmerà questo spazio con qualcosa che io non avrei saputo immaginare. Trent’anni sono abbastanza.
Giunto del resto a una certa età, lasciando lo spazio vuoto, invito il direttore, l’editore, la redazione, a guardare avanti, offrendo ai lettori della rivista qualcosa di nuovo. I lettori certamente lo meritano.