‘Imprenditore’. Una parola


Il latino imprehendere ci parla del prehendere –‘afferrare’, ‘mettere le mani’ su qualcosa, idea connessa con quella di preda–, e allo stesso tempo, attraverso l’in-, fa riferimento all’‘introdursi’, al moto verso l’interno, al moto dall’alto in basso.

Così, in italiano, Guido Guinizelli –bolognese, giudice di professione, uomo politico, poeta– già attorno alla metà del 1200 parla di impresa come‘opera o azione che si comincia o che si ha in animo di fare’. Prima della metà del 1300, a Firenze, Giovanni Villani, cronista, mercante, banchiere, usa la parola imprenditore. Più o meno un secolo dopo Guinizelli, Francesco Petrarca completa la definizione: l’impresa è ‘azione, attività di una certa difficoltà e importanza, ma spesso di esito dubbio’.

In francese, a partire dal 1100, si usava il verbo entreprendre, per ‘attaccare’, ‘tentare di sedurre o convincere’ (“entreprendre une femme”). E dal 1200, più o meno come in italiano, entreprise ha un generico significato di ‘disegno’. ‘progetto’, ‘opera, affare. lavoro. Dal francese l’inglese enterprise: siamo sempre in un terreno che sta tra l’‘audace impresa’ e il farsi ‘farsi carico’. Qui, più che in italiano ed in francese, l’espressione fatica ad affermarsi, rispetto ad altre più pregnanti: daring spirit, bold undertaking.

Solo nel 1600, in francese, entreprise assume chiaramente il senso di ‘opération de commerce’, e si prende a chiamare entrepreneur la ‘persona che si incarica dell’esecuzione di un lavoro’. In inglese entrepreneur arriva, pari pari dal francese, solo nel 1800. Negli stessi anni anche da noi imprenditore è “chi imprende lavori a fare per altri a compenso pattuito, ci guadagni o ci perda”.

Ma intanto il teatro italiano –con il melodramma e la commedia dell’arte– si è affermato in Europa. Così in milanese (impresaerij), e poi in italiano, all’inizio del 1700, con un immediato riferimento specifico al mondo teatrale, sia afferma il termine impresario. Pochi anni dopo la parola italiana entra (e vi resiste tuttora) nel lessico francese e inglese.

Schiacciata da altre di uso più comune, anche se di significato l’una dall’altra diverso –tra le altre: businessman, undertaker, contractor– l’espressione entrepreneur si afferma pienamente, come termine preciso solo quando Joseph A. Schumpeter, economista moravo emigrato dalla Mitteleuropa negli Stati Uniti, scrive negli anni ’40 del secolo scorso i fondamentali saggi che fanno dell’imprenditore, innovatore, fautore di continua ricombinazione dei fattori di produzione, l’eroe del capitalismo contrapposto al funzionario del socialismo assoggettato a pianificazione. Schumpeter insegna quindi a diffidare di tutto ciò che imbriglia, impedisce e vieta la libera azione dell’imprenditore. Non si tratta però del mero utilitarismo -diminuire la pena, aumentare il piacere- dell’economia classica del 1800, né del liberismo di Friedrich von Hayek giunto in America dalla Mitteleuropa negli stessi anni di Shumpeter, capostipite di quella che sarà la Scuola di Chicago.

Schumpeter è il primo economista a collocare l’imprenditore veramente al centro della scena – non solo economica, ma politica e sociale. Diceva: “la funzione dell’imprenditore è la realizzazione del nuovo nell’economia nazionale”.

L’imprenditore schumpeteriano è autore di una “perenne bufera di distruzione creatrice”. La crescita si fonda su questa distruzione. Ondate di innovazione, frutto di investimenti degli imprenditori, si succedono a grappoli. Mentre la scuola di von Hayek ha finito per aprire le porte a posizioni monopolistiche e alla finanza speculativa, Schumpeter considera le prospettiva di guadagno sempre legata all’offerta competitiva di nuovi prodotti e nuovi servizi.

Eppure, ricordando la fertile ambiguità impresario/imprenditore, chi meglio ci riassume la storia della parola impresa non è Schumpeter, ma Konstantin Sergeevič Stanislavkij (1863-1938), attore, regista, formatore, organizzatore. L’organizzazione teatrale e il modo di recitare che oggi ci sono familiari debbono molto al suo atteggiamento innovativo. Diceva, tra l’altro, che la forza del teatro sta nel “collettivo artistico”, che “che al lavoro creativo unisce in un unico fine armonico poeti, artisti, registi, musicisti, ballerini, comparse, scenografi, elettricisti, costumisti e gli altri fautori della scena, assoggettando con un concorde impeto”. Difficile trova una migliore definizione di impresa.

Nota: Considero sempre importante riflettere sulla storia delle parole; nella storia sta il loro senso. Sul Sole 24 ore (numero del lunedì), dal 1995 al 1998 ho tenuto una rubrica a questo proposito. Ho scritto quindi due libri: Le Parole de manager e Nuove parole del manager. Dal 2006 tengo una rubrica di parole sulla rivista Sviluppo & Organizzazione.