Il lavoro umano nei tempi digitali. Una sintesi del mio punto di vista


Il lavoro umano -la sua importanza, le sue caratteristiche distintive, ciò che fare per preservarlo e dargli valore. Questo argomento mi pare centrale oggi. Di crescente attualità. In questo testo mi pare di essere riuscito a sintetizzare abbastanza bene il mio punto di vista.

Non possiamo più parlare di lavoro. Dobbiamo aggiungere sempre l’aggettivo: lavoro umano.

Abbiamo dato per scontato il concetto. Repubblica fondata sul lavoro. Organizzazione del lavoro. Psicologia e sociologia del lavoro. Costo del lavoro.

In particolare noi che ci occupiamo di Personale, di Risorse Umane, abbiamo sempre dato inteso il lavoro come un attributo dell’essere umano. Forse, la manifestazione più piena dell’essere umano.

A pensarci bene, però, abbiamo sempre sottovalutato il peso di una accezione negativa del lavoro. Molti, infatti, pensando al lavoro, vedono innanzitutto il peso, la fatica, sfruttamento. C’è stata una epoca, verso gli Anni Settanta del secolo scorso, il cui si è celebrato il rifiuto del lavoro. E ancora oggi si tende a enfatizzare la differenza tra lavoro e tempo libero. Certo, tutti vogliamo, per noi stessi e per ogni altro essere umano, che il lavoro sia sempre meno faticoso, pesante, usurante, dannoso per la salute. Tutti vogliamo un lavoro che non abbia riflessi negativi sulla speranza di vita.

Ma accettando questa critica del lavoro, giustificando la preferenza per il tempo libero, ci dimentichiamo alcuni aspetti chiave. Ci sono certo aspetti positivi nel tempo libero, e forse la riduzione degli orari di lavoro è un modo per garantire lavoro a più persone. C’è anche un certo paradosso nel cercare di liberarsi dalla fatica nel lavoro, per poi scegliere di faticare nel tempo libero: gli sport sono faticosi. Ma in ogni caso resta aperta la domanda: come occupiamo il tempo libero? In cosa consiste l’ozio? Forse non è così vero che nel tempo libero siamo liberi. La società dei consumi vuol dire colonizzazione del tempo libero. Siamo di fronte così ad un altro paradosso: vivere il tempo libero è svolgere un lavoro: il lavoro di consumatore, vittima di scelte obbligate.

C’è, ricordiamolo, per tutti, lo spettro della disoccupazione. C’è anche però, pronto, un pericoloso rimedio: il sussidio di disoccupazione, il salario sociale – chiamatelo come volete. Il sistema socio-economico nel quale ci troviamo a vivere tende a comprimere l’offerta di posti di lavoro. Ma in cambio offre sussidi di disoccupazione e salari sociali.

Ha senso quindi sostenere che la vera vita sta nel tempo libero? Ha senso cercare l’ozio? Ha senso cercare la propria realizzazione in hobby? Ha senso parlare ancora di lavoro come sfruttamento e di rifiuto del lavoro?

Meglio ripensare il concetto di lavoro. Tornando a considerare centrale per la vita umana il lavoro.

Meglio dire che anche l’hobby è un lavoro. Meglio dire che la situazione socio-economica ci pone di fronte ad una situazione dove esiste remunerazione senza lavoro e lavoro senza remunerazione.

Che cosa è dunque il lavoro. Conviene ripartire da quella frase di Primo Levi, così spesso citata. Ma forse non abbiamo meditato abbastanza su queste parole. Levi scrive nella Chiave a stella: “se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”. Per Levi è “profondamente stupida” la retorica di chi tende a denigrare il lavoro, “a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero”.

Attacco al lavoro umano

Ma c’è, nel discorso che sto facendo, un convitato di pietra. C’è una una presenza che spesso diamo per ovvia – ma che evitiamo di prendere veramente in considerazione: la tecnologia.

E’ ovvio dire che le tecnologie sono benvenute non solo perché moltiplicano la produttività, ma anche perché alleviano la fatica dell’uomo. Ma altrettanto ovvio dovrebbe essere dire. come notavo all’inizio: non si può più parlare semplicemente di lavoro, si deve parlare di lavoro umano. Si deve dire lavoro umano per distinguerlo dal lavoro delle macchine.

Si sa che dagli anni a cavallo tra 1700 e 1800 il lavoro è cambiato. Le macchine sono apparse potentemente sulla scena. Le macchine hanno tolto fatica al lavoro umano. Hanno portato però anche riduzione dei posti di lavoro. Disoccupazione. E’ comodo, ma superficiale, considerare ingenui retrogradi i luddisti, quegli operai che nella prima metà dell’Ottocento consideravano le macchine fonte di disoccupazione. Vale ancora oggi quello che diceva il poeta Byron alla Camera dei Lord difendendo i luddisti: “Queste macchine sono state per loro [gli imprenditori] un vantaggio, perché facevano venir meno la necessità di impiegare un certo numero di operai”.

Una facile accusa a chi parla così come sto parlando è dire: sei luddista. Facile esporre al pubblico ludibrio: innovazione, progresso, finiscono per essere miti indiscutibili. Eppure parliamo oggi di limiti dello sviluppo. Non sono in discussione i vantaggi della moderna industria, della produzione di massa, dell’automazione. Ma è anche vero che dove aumenta il lavoro delle macchine diminuisce il lavoro umano. E’ anche evidente che siamo alle prese con crescenti volumi di disoccupazione. Ricordando Levi, disoccupazione vuol dire impossibilità, per un crescente numero di persone, di cercare sé stessi attraverso il lavoro.

Oggi, evidentemente, siamo di fronte ad un attacco al lavoro umano.

Il più facile modo di svalutare l’opinione di chi, come in me, non si rassegna a questo trend, è dire: anche la Rivoluzione Industriale del 1800 ha tolto posti di lavoro, ma poi le cose si sono aggiustate. Nuovi posti di lavoro sono emersi. Non si dice come, non si sa come, ma si vuole trarre buon auspicio da questo passato: anche stavolta le cose si aggiusteranno.

In risposta a queste posizione elusive, però, possono essere portati solidi argomenti. La Rivoluzione Industriale del 1800 è diversa dalla Rivoluzione Digitale. Per almeno due aspetti.

Distanza dei tecnologi dai luoghi di lavoro. Nel 1800, e ancora nel 900 con l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, i tecnici, gli ingegneri, erano vicini alla fabbrica. Anzi, ne facevano parte: i progettisti delle macchine, all’inizio del 1800 erano lavoratori che cercavano, tramite l’evoluzione dell’attrezzo, dello strumento, il modo di alleviare la propria personale fatica. La macchina era un passo ulteriore in questa direzione.

Oggi i sistemi di automazione sono progettati in luoghi lontani dalla fabbrica, lontani dalla cultura dell’industria manifatturiera.

I tecnologi digitali, invece, non si considerano lavoratori. Si considerano progettisti di mondi che altri, non loro, dovranno abitare. I tecnologi, lontani dalla fabbrica, sono invece vicini ai mercati finanziari. Tramite software, algoritmi, dei quali i lavoratori, e gli stessi manager di uno stabilimento produttivo nella sanno Le aspettative di ritorno finanziario sono imposte ad ogni impresa.

Linee essenziali del progetto: senza esseri umani. Nel 1800 e nel 1900 dallo studio del lavoro umano nasceva la scelta di automatizzare singole attività, o magari interi processi. In nessun caso però si immaginava il lavoro della macchina senza lavoro umano. Lo scenario è socio-tecnico. Macchine al servizio degli esseri umani. Esseri umani e macchine insieme.

Con le tecnologie digitali, oggi, invece, lo scopo del progetto è: sostituire in toto il lavoro umano. Sostituire sia il lavoro umano che è sia agire pratico, sia il pensiero umano. Il lavoro dei computer scientist è teso a questo: farne a meno dell’essere umano.

Ritorno al lavoro umano

Ogni lavoro umano, si dice, entro cinquant’anni sarà alla portata di un sistema automatico, di un robot, di una intelligenza artificiale, di un algoritmo.

Molti tecnologi e scienziati, nell’indirizzare i loro sforzi sono in buona fede. Possiamo considerarli vittima di una limitante formazione STEM, che fa perdere di vista il loro stesso essere umani. Primo Levi considera la loro posizione “profondamente stupida”. Ma loro non lo sanno, perché la formazione STEM considera perdita di tempo la riflessione umanistica.

Dunque di fronte al progetto di sostituire in toto il lavoro degli esseri umani con il lavoro di macchine, non basta più parlare di politiche del lavoro: si deve parlare di politiche per il lavoro umano.

La saggezza umana, quel pensiero che ci accompagna dalle origini, e che ogni cultura porta nel proprio cuore, quel monito ci dice: cerca te stesso, cerca il Sé. Cerca di essere il più pienamente possibile consapevole del tuo essere, del tuo agire nel mondo. Responsabile di fronte a te stesso, alla comunità umana, all’ambiente ecologico e sociale cui appartieni. Ma nell’Era Digitale si spalanca una via di fuga: affidati alla macchina. Un algoritmo ti dirà cosa fare, una Intelligenza Artificiale ti guiderà, ti assisterà, ti proteggerà. In questo nuovo scenario la ricerca del Sé non è più motivata.

E’ questa la tendenza che dobbiamo contrastare. Tornando a porre al centro dell’attenzione il lavoro umano.

Nota. Questo testo è apparso in: Annuario 2021, AIDP [Associazione Italiana per la Direzione del Personale] Liguria. Gli argomenti di questo testo sono ampiamente trattati nel libro: Francesco Varanini, Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020.