Livelli di vita. Viaggio nella malattia in letteratura. Francesco Varanini e Stéfano Pérez Tonella. 29 maggio 2024 ore 19. Libreria degli Asinelli, via Bagaini 14, Varese


Converseremo sul tema della malattia. Del dolore, della sofferenza, della morte.

La salute è -stando all’originario senso del latino salvus– ‘interezza’, ‘integrità’. Il senso di salvus è stato poi ripreso da totus, ‘tutto’. Impossibile per l’uomo raggiungere il tutto. Impossibile essere veramente interi, integri: ‘intatti’, ‘non toccati’. Non toccati, potremmo dire dalla malattia. La malattia è perdita dell’armonia che contraddistingue l’essere umano, inevitabilmente lontano dalla piena integrità. Armonia: equilibrio, proporzione, reciproco adattamento tra le parti, consapevolezza, potremmo dire, del proprio essere sistema complesso.
La piena salute è il  desiderio inappagato, a vision in a dream.

Stéfano mi propone di conversare attorno alla letteratura, non arte in senso lato. Chi sarà non noi a Varese la sera del 29 vedrà come si sviluppa il dialogo. Inutile prevederlo ora o porre limiti.
Ma non posso non ricordare di aver scritto di recente a proposito della ‘malattia’ di Goya. Del resto Goya non era solo un artista visivo. E’ anche un fine letterato; la sua arte si manifesta appieno proprio nella fusione tra immagini e parole: ricordiamo i titoli da lui dati alle opere, le frasi scritte dentro le opere.
La sua, ho scritto, era “‘una malattia di testa’, che coinvolge il corpo e la psiche: la persona intera e il suo essere artista. In realtà, la guarigione sta nell’accettare la propria malattia. Il Goya di prima non tornerà più. Il nuovo Goya è più consapevole, ma lacerato. Accetta una doppiezza, una scissione. E accetta che il suo tormentato modo di essere si manifesti nell’opera. I dipinti placidi, manierati e perfezionisti non torneranno più.
Al loro posto, anche nelle opere dedicate a ritrarre regnanti e governanti, il giudizio critico e sardonico traspaiono. A questa produzione almeno in apparenza agiografica si aggiunge un lavoro segreto, la cui fruizione è riservata a pochi amici, o all’autore stesso: l’opera ‘nera’”.
“… la relazione tra arte e malattia, l’arte come cura, come allontanamento dalla malattia. O forse meglio: come consapevole convivenza con la propria malattia, con i dolori del corpo e dell’anima che fanno parte della nostra storia, della nostra sensibilità nel vivere il tempo, l’ambiente”.
“L’artista disegna e dipinge per sé stesso. L’opera è terminata nel momento in cui l’artista non ha più bisogno di lavorarvi. L’artista è un artista nel curarsi”.
“L’opera che abbiamo ora sotto gli occhi, e la sua genesi, lasciano, crediamo volutamente, le tracce per seguire Goya nella sua personale, soggettiva ricerca di un modo per convivere con la malattia, il malessere”.

 

 

Stanno nel ricordo di ogni lettore pagine che parlano di dolore, sofferenza, malattia, violenza, morte incombente.
Le citazioni potrebbero essere infinite, non si può che andare seguendo la propria memoria. Ora come ora mi vengono in mente La morte di Ivan llich di Tolstoj, Der Stechlin di Theodore Fontane, Pedro Páramo di Juan Rulfo. Mi viene in mente il, momento Thomas Buddenbrook inizia a rendersi conto che qualcosa comincia a sfuggirgli, e che non riesce “più a tenere in pugno questa cosa indeterminata” che è il suo lavoro di imprenditore e commerciante. Restando con Thomas Mann, come non ricordare La montagna incantata e Morte a Venezia.
I ricordi di letture si affollano e si accavallano. Ma sono solo lampi, sussulti della memoria. Quando mi troverò a conversare con Stéfano, probabilmente saranno altri i testi che mi verranno in mente.

Se poi devo tornare con il ricordo, come mi invita a fare Stéfano, a quanto scrivevo nel Viaggio letterario in America Latina, rischio di perdermi tra varie possibili citazioni, per cui mi limito a ricordare qui una sola, emblematica rappresentazione letteraria, Cali, Colombia, osservata con gli occhi di Andrés Caicedo, gli Anni Settanta del secolo scorso… Di ¡Qué viva la música! esiste anche una vecchia traduzione italiana, ignorata quando fu pubblicata. Ma il romanzo è stato ritradotto di recente per l’editore Sur dall’amico Raul Schenardi. Cartelli della droga dominano la scena. Un clima di violenza difficile da immaginare da lontano. “Si può perdere la vita nel corso di conflitti a fuoco con le forze dell’ordine, per attentato, per regolamento dei conti, ma anche futilmente per furti da due lire, o per il goal subito da una squadra di calcio”. Ma tutto questo resta sullo sfondo. Lo sguardo straordinariamente intenso di Caicedo osserva la vita notturna, il disagio giovanile. “Usare e ri-usare fino all’estremo limite cinema e musica pop: appropriandosene, perché tutto questo non ci possa essere imposto dall’esterno. Mettere a repentaglio la propria vita e scegliere di perderla a modo proprio, perché sarebbe stata comunque una vita priva di libertà. Togliersi con le proprie mani dalla scena prima che la scena si accorga di noi e prenda in considerazione la possibilità di usarci”.

Ora, questo sguardo rivolto alla letteratura sembra non avere nulla a che fare con l’attenzione che mi sono trovato a dedicare ultimamente alla cultura digitale e all’avvento di cosiddette intelligenze artificiali. Invece, si tratta propio della continuazione dello stesso discorso. Nel libro Splendori e miserie delle intelligenze artificiali. Alla luce dell’umana esperienza, osservo come stiamo vivendo ridotti per via digitale da cittadini ad utenti. Un disagio che già Freud notava nel 1929. Scriveva nel Disagio della civiltà a proposito della “presente inquietudine, infelicità, apprensione”. Commento nel mio libro: “Mentre Freud ci invita a guardare alle nostre tenebre interiori, e al nostro stesso essere stranieri a noi stessi, scienziati e filosofi tentano di definire linguaggi capaci di rendere esplicita ogni oscurità, linguaggi capaci di descrivere ogni cosa”. E’ la via di Turing.
Turing non riuscì a cercare e a trovare sé stesso, non seppe accettarsi. Immaginò quindi conveniente per noi umani affidarsi a macchine capaci di scegliere e decidere; macchine capaci di rispondere a ogni domanda. Macchine, anche, capaci di scegliere e decidere, al posto degli esseri umani, il modo di prendersi cura e di curare gli umani.
Turing, così,  per allontanarsi dal proprio dolore, apre la strada alla fuga umana dalla propria responsabilità. Che consiste anche, o forse innanzitutto, nell’accettare la propria ‘malattia’. La propria ‘malattia’ è in, fondo, il personale modo di essere. Solo da questa accettazione può nascere una guarigione

Mi è capitato di leggere in questi giorni l’intervista ad un tecnico digitale italiano: “Spero di vivere abbastanza da diventare una specie di cyborg”. Questo tipico seguace di Turing spera così di “accrescere le proprie facoltà, o contrastarne il declino con l’età, grazie a ‘innesti’ di protesi elettroniche potenziate dall’Intelligenza Artificiale”.
Possiamo farlo; ma a qual’è la soglia? Chi si affida all’intelligenza artificiale è ancora umano? Credo che convenga a noi umani accettare, lo ripeto, di essere limitati e mortali. Comprendere, accettare la propria malattia, il proprio squilibrio, è il primo passo nel conoscere sé stessi.

Di qui torniamo alla letteratura. Perché purtroppo il tecnico resta chiuso nella cultura STEM. Leggere i romanzi è per lui tuttalpiù uno svago, non connesso alla costruzione della propria identità ed alla riflessione su sé stesso. E’ un peccato, perché proprio la grande letteratura, romanzi e poesie,  ci dicono chi siamo. Ci parlano della nostra malattia.

Qui di seguito citazioni che traggo da miei appunti e testi inconclusi.

Tu dici, Milena, che non comprendi. Cerca di comprenderlo chiamandolo malattia. È una delle tante manifestazioni patologiche che la psicoanalisi crede di avere scoperto. Io non la chiamo malattia e credo che la parte terapeutica della psicoanalisi sia un tremendo errore. Tutte queste cosiddette malattie, per tristi che siano, sono manifestazioni di fede, sforzo dell’individuo per rimanere ancorato a un qualche territorio materno”.
Franz Kafka, lettera a Milena Jesenská

E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani).
Italo Svevo, lettera a Valerio Jahier

Dialogo A. Ero malato? Sono guarito? E chi è stato il mio dottore? Come ho dimenticato tutto! B. Solo adesso ti credo guarito: perché è sano chi dimenticò.
Friedrich Nietzsche, Gaia Scienza, Preludio in rime tedesche, 4

I suffer from a motor neuron disorder, in my case a variant of amyotrophic lateral sclerosis (ALS): Lou Gehrig’s disease. Motor neuron disorders are far from rare: Parkinson’s disease, multiple sclerosis, and a variety of lesser diseases all come under that heading. What is distinctive about ALS—the least common of this family of neuro-muscular illnesses—is firstly that there is no loss of sensation (a mixed blessing) and secondly that there is no pain. In contrast to almost every other serious or deadly disease, one is thus left free to contemplate at leisure and in minimal discomfort the catastrophic progress of one’s own deterioration.
Tony Jundt, “Night”, The New York Review, January 12, 2010

C’est l’HYBRIS de l’homme, qui peut le pousser à identifier son corps à la puissance machinique. Mais la machine possède, en vérité, à l’instar du corps, une ORGANISATION. Ses pièces, articulées entre elles, exigent de n’être point placées au hasard. Or cette notion d’organisation – qui implique différences et hiérarchie – est en passe de disparaître de l’univers mental occidental. Il m’est apparu que quelque chose de cette désorganisation pouvait donner lieu au fantasme d’un corps éclaté. Et que ce fantasme s’inscrivait même, parfois, dans le réel. L’explosion du corps propre devient alors le reflet d’un monde dont le démantèlement est ardemment souhaité.
Janine Chasseguet-Smirgel, Le corps comme miroir du monde, Paris, PUF, 2003, p 3.